Il sentimento prevalente? Il rimpianto. Quello per il calcio ai tempi di Ameri e Ciotti (e Ferruccio Gard, Paolo Valenti, Bubba e Vasino), per come ci veniva raccontato più che per la sua realtà effettiva. Per Basléta Lodetti che rivive in Ceramica. Per la traversa immaginaria quando la porta era un muretto o due maglioni appoggiati per terra e i bambini giocavano a oltranza nei cortili, sbucciandosi le ginocchia… Nel coltivare il rimpianto, l’autore scava una galleria di omaggi emblematici: a Beppe Viola e al suo Ufficio Facce; a Mario Kempes che non strinse la mano a Videla; a Sparwasser eroe eponimo dell’unica partita fra le Due Germanie; a Giacinto che reinventò il terzino e a Liam che tirò il rigore pur sapendo che finiva una storia (all’opposto di quanto fece l’algido Falcao nella finale contro il Liverpool).
Episodi brevi o brevissimi, quelli che Mainardi propone, come per un malinteso pudore nell’eccedere con i dettagli. Alcuni episodi sono dichiaratamente autobiografici – dal Gemma che infine imparerà a passare il pallone, al Gianni Meraviglia, che ognuno ne ricorda uno diverso, al farsi tirare i sassi dagli amici perché si è sicuri di scansarli… In altri casi, il lettore è chiamato a confrontarli, i ricordi, a districare realtà e leggenda: per esempio, dirimendo la questione se Carosio disse o no “negraccio” a un guardalinee etiope colpevole di aver segnalato un fuorigioco di Riva, oppure sulla ragione per cui un terzino dello Zaire perse la testa davanti a un calcio di punizione di Rivelino, o come si chiamassero quei Numero 12 invecchiati all’ombra di Zoff, nella dolente, sfinente attesa da deserto dei Tartari.
È un libro a cui ho dato un piccolo contributo, con una postfazione che vorrebbe essere ironica…