La strada, Cormac McCarthy, 2006

Bisogna sopravvivere, raggiungere un imprecisato mare, ultimo progetto, ultima speranza in un mondo che non ne ha più. Il futuro è pura sopravvivenza, legato all’unico legame emotivo, fra padre e figlio, il passato ritorna sotto forma di ricordi e sogni, il presente è annichilito, un monotono grigio cenere che avvolge alberi carbonizzati, strade fuse dal calore, acque limacciose, carcasse di uomini e animali, detriti della civiltà scomparsa.

Fa sempre freddo, il sole non scalda; non ci sono pesci, né uccelli, nulla che si possa cacciare o mangiare. Padre e figlio procedono in un silenzio opprimente. Polvere e fango, neve e pioggia lividi. Il bambino non conosce il mondo di prima, è nato poco dopo il disastro, del quale non ci viene detta la causa. La sua ingenuità lo porta a sperare che da qualche parte ci siano altri “buoni”, come lui e il padre, su quel pianeta dannatamente hobbesiano. Lupi, solo lupi, ovunque.

The Road, il film

All’età di 73 anni, McCarthy pubblica questo incubo apocalittico, tradotto per Einaudi da Martina Testa, che per certi aspetti rimanda a Matheson (Io sono leggenda), con un’ulteriore, disperante perdita di coordinate spazio-temporali. Una scrittura spezzata in piccoli paragrafi, senza capitoli, quasi che voglia lasciare al lettore il tempo di riprendere fiato, e riprendere il cammino, oltre l’orrore più cupo.

Non hanno un nome, quell’uomo e quel bambino, ma si capisce subito che sono dei sopravvissuti. Fuggono da chissà dove, verso un generico sud. Spingono un carrello da supermercato, alla maniglia del quale “era attaccato un retrovisore da motocicletta cromato che l’uomo usava per tenere d’occhio la strada dietro di loro”. Si proteggono con una mascherina di cotone davanti alla bocca, l’aria è impregnata di fuliggine, polvere e cenere; un telo di plastica li ripara dalla pioggia. Mangiano scatolette, attraversano paesaggi desolati, nessun segno di vita nemmeno nei piccoli centri urbani, solo “terra mangiata dal fuoco a perdita d’occhio”, un’intera pianura “cauterizzata”. Piove e nevica spesso, le notti sono di un’oscurità assoluta.

Padre e figlio sono rimasti soli, la madre ha scelto di separarsi da loro, per lasciarsi morire. L’uomo ha una pistola con due proiettili, un vecchio accendino, un binocolo, un apriscatole, una vecchia carta geografica. Si muovono con lentezza, evitando i percorsi più in vista; vogliono sfuggire a “sette sanguinarie”, banditi e predoni, ogni tanto trovano cadaveri spogliati di tutto. Quanto tempo sia passato dall’imprecisata apocalisse non è chiaro: però quando l’uomo trova in un supermercato una lattina di Coca Cola e la porge al figlio, è chiaro che il bambino non l’ha mai bevuta. Folate di cenere si alzano nel vento, non si dice cosa sia accaduto, solo che si tratta della “rivelazione finale della fragilità di ogni cosa. Vecchie e spinose questioni si erano risolte in tenebre e nulla”.

La società umana è regredita alla schiavitù e al cannibalismo. Incroceranno una dispensa di carne umana, tenuta in vita come nutrimento: la barbarie ha oltrepassato ogni tabù. Il bambino ha capito tutto, chiede conforto al padre, vuole essere certo che loro non lo faranno mai, che loro sono i “buoni” e non avrebbero mai mangiato altre persone.
Braccati, dopo mesi di quella vita, padre e figlio consumano l’ultima scatoletta di cibo. Sono costretti ad abbandonare il carrello. L’uomo deve continuamente rincuorare il figlio, sempre più magro, “affamato, esausto, sconvolto dalla paura”, così simile alle immagini degli scampati dai campi di concentramento.

Quando finalmente arrivano davanti all’oceano, anche quella distesa si rivela grigia e implacabile. Ma il bambino non ha mai visto il blu del mare, e nonostante il freddo ha voglia di tuffarsi in quelle onde. Il giorno dopo, setacciando la spiaggia, vedono una barca non troppo distante, l’uomo riesce a salire a bordo e trova un altro po’ di vettovaglie con cui sopravvivere. E a pagina 170, McCarthy lascia il primo riferimento che ci dà la certezza di stare nel nostro mondo, la piccola imbarcazione ha un nome: “Pajaro de Esperanza. Tenerife”…

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5 risposte a "La strada, Cormac McCarthy, 2006"

  1. Carlo Crema 29 agosto 2014 / 11:05

    L’ennesimo capolavoro di Cormac McCarthy, uno dei più grandi tra i contemporanei. Spero che chi ti legge trovi stimolo per conoscerlo meglio.

  2. metalupo 25 novembre 2019 / 09:11

    Ho visto il film ed è spaventoso, una di quelle storie disturbanti che lasciano il segno per parecchio.

  3. kund3ra 25 novembre 2019 / 11:22

    Romanzo di bellezza struggente.

  4. Danilo Santoni 25 novembre 2019 / 23:18

    Un capolavoro che ti colpisce alla bocca dello stomaco, ma forte.
    Mentre lo leggevo stavo male, veramente.
    Libro angosciante e tremendo, per me.

  5. Carlo Crema 26 novembre 2019 / 12:07

    Un crudo, diretto, implacabile pugno nello stomaco.

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