La macchia umana, Philip Roth, 2000

Philip Roth da cima a fondo

Settantuno anni lui, già preside e professore di lettere classiche, trentaquattro lei, che fa le pulizie in quel college e la mungitrice in un allevamento. Da qualche mese, Coleman Silk e Faunia Farley avevano una relazione segreta, ma Coleman l’aveva confessato all’amico Nathan Zuckerman, voce narrante, alter ego di Roth in tanti romanzi. Coincidenza: era l’estate del 1998, la stessa in cui si venne a sapere di Bill Clinton e della famosa stagista.

Ebreo del New Jersey, di sei anni più vecchio di Nathan, Coleman Silk aveva passato gran parte della sua vita nel college di Athena, nel Massachusetts, vicino ai monti Berkshire, dove Nathan si era rifugiato cinque anni prima.

Aveva avuto quattro figli dalla moglie Iris, morta due anni prima in seguito a un ictus; professore spettacolare, molto amato dagli studenti, a fine carriera era stato travolto da un grottesco, crudele processo in cui dovette difendersi dall’accusa di razzismo.

La parola incriminata è “spook”, traducibile con “spettri”, e ha un recondito significato dispregiativo per i neri. L’accusa era inconsistente, ma Coleman non sapeva quanti nemici si fosse fatto. Come nel Michael Kohlhaas di Kleist, è gigantesca la sproporzione fra il presunto delitto e i suoi effetti. Da un evento minimo, discendono conseguenze catastrofiche: secondo Coleman, la moglie Iris è morta di dolore. “Ecco di cos’ero testimone, il più delle volte, quando, il sabato sera, venivo a tenergli compagnia: di un disonore umiliante che continuava a rodere una persona ancora piena di vita”.

Dopo due anni di rabbia e furore, è la relazione con Faunia a risollevare Coleman, ridandogli una forte spinta vitale, “l’ebbrezza dell’ultimo amore”, paragonabile a quella di Aschenbach per Tadzio. Faunia rappresenta per Coleman un’autentica “rinascita”; Roth è straordinario nel descrivere l’ossessione amorosa di un uomo che viaggia verso “la fine della vita”, e mai si sarebbe aspettato di provare ancora certe emozioni.

La donna ha avuto una vita disgraziata: sposata a un paranoico reduce dal Vietnam, Lester Farley, che la picchiava selvaggiamente… ha avuto due figli, morti asfissiati nell’incendio della casa… a quattordici anni, il patrigno cercò di abusare di lei, la madre non le credette e lei scappò di casa… Delusi dalla vita, traditi nelle aspettative, colpiti dalla miseria della condizione umana, Faunia e Coleman formano una coppia improbabile che Roth tramuta in un simbolo di come il caos passionale della vita possa prevalere sulle fragili costruzioni intellettuali. In quella provincia ipocrita e soffocante, agli occhi di tanti – compresi i suoi figli – quello di Coleman con Faunia è un “comportamento inappropriato”, come quello di Clinton con Monica Lewinsky.

Nathan ascolta. Da cinque anni è impotente (e incontinente), in seguito a un’operazione chirurgica per un cancro alla prostata: i racconti di Coleman, con i dettagli sessuali, gli provocano un’inquietudine che credeva finita per sempre, azzerando “tutte le consolanti illusioni sulla serenità conquistata”…

Maestro nella gestione dei tempi, Roth sa cosa far sapere al lettore e quando, è magistrale nel disporre l’ordine degli avvenimenti, lasciando il presente per il futuro, o tornando al passato, persino al passato remoto, con una facilità, un’esattezza… come se non fosse possibile raccontarla diversamente, questa storia. Grazie a una dettagliata divagazione verso il passato, il lettore scopre che l’integerrimo Coleman Silk nasconda un incredibile segreto: sangue nero scorre nelle sue vene.

Aveva perso Steena, la prima fidanzata, quando lei scoprì che era nero. E quando conobbe Iris, decise di fingersi ebreo.

Per nascondere a Iris il colore e la razza, Coleman le disse che i genitori erano morti e che non aveva fratelli (la madre era ancora viva, e di fratelli ne aveva due, Walter ed Ernestine). Confessò le sue intenzioni all’amatissima madre, lei capì che non avrebbe mai conosciuto i suoi nipoti; gli disse: “Immagino che ogni profondo cambiamento nella vita richieda che si dica «Non ti conosco» a qualcuno”. Ne deriva una separazione traumatica, irreversibile; a ventisei anni, Coleman decise di vivere dentro una gigantesca menzogna, senza mai voltarsi indietro, nascondendo la verità persino ai quattro figli.

Da oltre quarant’anni, aveva vissuto celando a tutti la propria identità. Ma Nathan arriva a convincersi che almeno a Faunia l’abbia confessato. Aveva cancellato la propria negritudine, a costo di procurare un dolore immenso alla madre e rompere ogni legame con i fratelli. Si era trattato di un’autentica crudeltà, ma era necessaria a far sì che Coleman potesse sentirsi libero e vivere senza pagare il prezzo dei pregiudizi.

A un certo punto, ho temuto che Roth stesse scadendo nell’artificiosità: passi Zuckerman, ma sovrapporgli un altro piano del racconto, che scava ben oltre le confidenze raccolte da Coleman e riferite allo scrittore, mi appariva eccessivo. Non capivo come il narratore avesse saputo tante cose… E sbagliavo. Roth spiega tutto. Indica il come, il quando e con chi ha potuto ricostruire certi episodi, anzi si permette di allontanare Coleman da Zuckerman per motivi che diventeranno noti solo in seguito. È l’ennesimo pezzo di bravura di Roth, la più eloquente dimostrazione di come sapesse disporre dell’arte del romanzo…

Dedicandosi con accanimento alla ricostruzione dei fatti, Zuckerman/Roth si ritrova avvolto dalla solita ossessione: “È quello che succede quando uno scrive libri. Non è solo una cosa che ti spinge a scoprire tutte le altre: è una cosa che comincia a buttartele fra i piedi. Improvvisamente non esiste una sola strada secondaria che non porti difilato alla tua ossessione”.

Ho poi ascoltato, più volte, l’ultimo movimento della Terza Sinfonia di Mahler. E dovrò approfondire chi fossero gli afroamericani Matthew Henson e Charles Drew.

The Human Stain, nella traduzione per Einaudi di Vincenzo Mantovani, venne portato al cinema da Robert Benton, nel 2003: il film sviluppa solo una parte dei temi presenti nel romanzo, con Anthony Hopkins e Nicole Kidman nei ruoli principali. Ed Harris è Lester Farley, Gary Sinise interpreta Nathan Zuckerman.