Mario Bava (fotografia), Flavio Mogherini (scene), Carlo Rustichelli (musiche) e Sergio Leone (aiuto regista): questi nomi costituiscono la spiegazione che mi sono dato al fatto che mai Bologna, al cinema, fosse stata mostrata così bella.
A settant’anni di distanza, questa pellicola in bianco e nero resta una pietra miliare nell’immaginario sul nostro centro storico, con il suo catalogo di scorci caratteristici: dalle chiese (San Francesco, Santa Maria dei Servi) alle Piazze (Mercanzia, Porta Ravegnana, Galvani, Malpighi, Minghetti, Roosevelt), dalla Scalinata del Pincio al parco della Montagnola, dallo stadio Comunale alla Stazione Centrale, dai giardini Margherita alle vie con i loro portici (Broccaindosso, Castiglione, Indipendenza, Farini, Rizzoli, Santo Stefano, Saragozza, Ugo Bassi e Zamboni).
Il soggetto di Luciano Vincenzoni, sceneggiato da Mario Bonnard, Fabrizi e Ruggero Maccari, imbastisce l’esile filo di una bonaria commedia all’italiana, fatta di equivoci e buoni sentimenti, tensioni e riappacificazioni, con immancabile lieto fine.
Orgoglioso conducente di tram, Cesare Mancini (Fabrizi) è nato a Roma e si è trasferito a Bologna per amore, ma ancora vive in casa di una suocera convinta che sua figlia meritasse di meglio. Cesare ha la passione delle bocce, gioca in coppia con il suo bigliettaio (Carlo Campanini) ma, proprio per le continue umiliazioni a bocce, il suo capo (il corpulento spagnolo Juan de Landa, già apparso in Ossessione), sembra averlo preso di mira. I Mancini hanno una figlia in età da marito (Lucia Banti) e si avvicina la serata in cui l’Azienda tranviaria premierà la sua “reginetta”: le concorrenti dovranno mostrare di saper cucire, stirare e fare le tagliatelle.
È l’orgoglio a far sì che Cesare nasconda alla famiglia il suo declassamento a bigliettaio, frutto di un provvedimento disciplinare. Sul tram “rubato”, l’atmosfera mi ha fatto pensare a Miracolo a Milano.