Il migliore, Bernard Malamud. #RoyHobbs

Ambiguo e implacabile, il destino avvolge Roy Hobbs fin dalla prima pagina. The Natural – il titolo originale – sta a identificare un uomo semplice, un talento naturale capace di fare cose che gli altri possono solo sforzarsi di imparare: è un romanzo profondamente americano, intorno al mito della “seconda opportunità” che tutti vorrebbero avere. Nel caso di Hobbs, si tratta di ricominciare con il baseball, dopo che la sua prima occasione di giocare nel campionato professionistico sfumò a causa di una donna.

Descrivendo l’ascesa e la caduta di un ragazzo di campagna, intrappolato nel suo passato e ossessionato dal desiderio di lasciare un segno nella storia del suo sport, Malamud compone una tragedia moderna, una favola fra salvezza e dannazione, polvere e gloria. L’eroe deve trovare la forza per rispondere ai colpi che gli riserva la sorte. Intorno a lui si muovono donne fatali, che attentano alla sua purezza e lo allontanano dal perseguimento dell’ideale. Qualche critico ha visto in Roy Hobbs una specie di Parsifal e in Wonderboy, la sua mazza, una versione di Excalibur.

Avendo visto il film, l’immagine scintillante di Robert Redford non mi ha mai abbandonato. Harriet (Barbara Hershey) si presenta con “la chioma sparsa in una schiuma di riccioli scuri… il viso era notevole, un po’ teso e pallido, e quando montò sul treno le sue gambe inguainate dal nylon diedero a Roy un attimo di batticuore”. Memo, con il suo “corpo da Miss America”, è Kim Basinger, Iris è Glenn Close. Girato nel 1986 da Barry Levinson, il film si concede un lieto fine che contraddice l’amara conclusione del romanzo.

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Panico a Needle Park [The Panic in Needle Park] – Jerry Schatzberg, 1971 – 8

Prima di dare volto e corpo a Michael Corleone e a Frank Serpico, Alfredo James Pacino (25 aprile 1940) era apparso in due pellicole: Me, Natalie e questa, il suo vero e proprio esordio da protagonista.

È un film duro, tratta la droga come non si era mai visto prima. All’angolo tra la 72esima strada e Broadway, c’era questo piccolo parco – vero nome: Sherman Square -, rifugio di giovani tossicomani senza una causa e senza una speranza. La sceneggiatura è firmata da Joan Didion, scrittrice eccelsa, e John Gregory Dunne, e accanto ad Al Pacino si muove Kitty Winn, Palma d’Oro a Cannes, poi con un piccolo ruolo ne L’Esorcista e infine scomparsa.

Bobby è simpatico, strafottente, coraggioso, allegro; Helen si è trasferita a New York per studiare arte, e ha appena lasciato un pittore che non l’ha aiutata mentre era incinta. Bobby e Helen fanno coppia con leggerezza, si vogliono bene, si scoprono affini. Lui entra ed esce di galera dall’età di nove anni, si mantiene con il piccolo spaccio, e presto comincia a farsi. La rapida spirale autodistruttiva trascina Helen, che per comprare le dosi arriva a prostituirsi.

Il mercato oscilla. In certi momenti l’eroina circola a prezzi di saldo, in altri è introvabile (eccolo, il “panico” al parco della siringa). Lo stile della narrazione è quasi documentaristico, ogni ago nella vena è mostrato senza compiacimenti o ipocrisie. La leggenda dice che Keith Richards non riusciva a credere che il regista fosse stato capace di girare un film così preciso sull’eroina senza averne mai fatto uso.

Un poliziotto preme su Helen affinché denunci Bobby e lui possa portarlo dal suo capo. Alla ragazza dice: «Dei drogati una cosa tieni a mente: tradiscono sempre». Sentenza ineluttabile: lo spettatore si chiede che fine farà Bobby, che fine farà Helen, se al The End almeno uno sarà sopravvissuto.

Finale indimenticabile, vicino alla perfezione.

Pink Cadillac – Buddy Van Horn, 1989 – 5

Tommy Novak è un moderno cacciatore di taglie. Lavora per il “garante” che ha versato la cauzione per qualche indiziato, che poi si è dato alla macchia: Novak lo insegue, lo cattura e lo riporta all’ovile (le spese per il carburante vanno documentate).

In questo caso, la preda di Novak è una giovane donna, Lou Ann, che al volante di una Cadillac rosa (come la canzone di Elvis) si è dileguata anche per sfuggire al marito, un piccolo delinquente finito in un giro di falsari fanatici (sono pieni di armi e meditano di compiere gesti esemplari contro neri, ebrei, comunisti, eccetera). Quando capisce di dover cambiare vita, Lou Ann affida la bambina di sei mesi alla sorella; ma non sa che la Cadillac rosa contiene un sacco di soldi veri…

“Se la catturi, la salvi”, dice a Novak il garante della cauzione. E, in effetti, quei suprematisti bianchi sono sulle tracce della giovane mamma, che si concede un fiammante vestito rosso e cerca di nascondersi in mezzo alla folla, a Reno, Nevada… Nella seconda parte, Novak assumerà le vesti del giustiziere e si legherà a Lou Ann.

Musiche country, sceneggiatura barcollante, attori mediocri (lei è Bernadette Peters), anche le scene di combattimento non brillano per intensità, nonostante Buddy Van Horn sia stato a capo degli stunt men in numerosi action movies. Tutto il film poggia sulle spalle di Clint Eastwood, che fa il possibile, ma deve incarnare un personaggio un po’ grottesco – senza un passato e con un presente banalotto – e combattere nemici balordi, psicopatici, più grotteschi del consentito (peggio dei nazisti dell’Illinois contro cui si destreggiavano Jake e Elwood).

Da wikipedia ricavo che “a causa dell’insuccesso di pubblico e critica ottenuto in patria, in Italia il film uscì direttamente in VHS nel settembre 1991”. Per pochi secondi, nei panni di un catastrofico imitatore di Elvis, compare l’ancora sconosciuto Jim Carrey. Lo stesso Clint si propone in un paio di travestimenti davvero kitsch.

Di e con Clint Eastwood

Uomini veri [The Right Stuff] – Philip Kaufman, 1983 – 8

Da un romanzo di Tom Wolfe (The Right Stuff, 1979), è un film emblematico della mutazione antropologica dell’American Way of Life. Protagonisti i piloti degli aerei che superarono il Muro del Suono e gli astronauti del primo programma spaziale (Mercury), che la NASA approntò per rispondere ai trionfi dello Sputnik e di Gagarin.

Differenza sostanziale fra piloti e astronauti: i primi non possiedono “la stoffa giusta” per la corsa allo spazio, mentre i secondi sono capaci di eccezionali prestazioni atletiche, e il loro addestramento è fatto di automatismi per ridurre a zero ogni margine di soggettività.

Nel 1947, nella base aerea Edwards, in California, vengono testati aerei in grado di raggiungere la velocità supersonica. Vari collaudatori muoiono, le loro foto vengono appese nel bar della base militare; finché Charles “Chuck” Yeager si offre di pilotare un Bell X-1 e riesce nell’impresa. A interpretarlo è Sam Shepard, sua moglie è Barbara Hershey: nonostante i suoi 193 minuti, il film lascia un po’ di amarezza per non aver approfondito il loro rapporto.

L’impresa di Yeager attira una quantità di giovani piloti, desiderosi di superare quei limiti: Mach 2 e ancora oltre. Intanto, alla Casa Bianca, JFK investe enormi risorse per rispondere alla sfida suprema, politica e tecnologica, contro l’Urss di Kruscev.

Sfida nella sfida, assistiamo alla competizione fra Alan Shepard (Scott Glenn), Virgil Grissom (Fred Ward), John Glenn (Ed Harris), Scott Carpenter, Walter Schirra (Lance Henricksen), Gordon Cooper (Dennis Quaid) e Donald Slayton, e ai maneggi del vicepresidente Lyndon Johnson (mostrato con molto sarcasmo), che cerca di farsi pubblicità con le imprese aerospaziali, mentre mogli e compagne degli astronauti trepidano per la loro sopravvivenza.

Grandioso spettacolo corale, con momenti epici, raccolse una quantità di nominations, fra cui quella per il miglior film dell’anno, ma di Oscar ne vinse solo quattro, tre “tecnici” e uno per le musiche di Bill Conti.

#Clint a novantatré anni

Nato il 31 maggio 1930 a San Francisco, a novant’anni Clint Eastwood aveva già interpretato 71 film, e ne ha diretti 41, lasciando un’indelebile impronta sulla Settima Arte.

Come ogni anno, in occasione del suo compleanno, ripropongo un post – in forma di classifica e continuamente aggiornato – in cui raccolgo le sue regie e le sue prove d’attore.

Di Clint attore, resta la memorabile sentenza di Sergio Leone, che ne distingueva le qualità con o senza cappello… Di Clint dietro la macchina da presa, se anche avesse diretto metà dei titoli qui sotto, e non necessariamente i migliori, sarebbe da considerarsi un autore eccezionale.

  1. Gli spietati
  2. Mystic River
  3. Million Dollar Baby
  4. Gran Torino
  5. Hereafter
  6. Un mondo perfetto
  7. I ponti di Madison County
  8. Il cavaliere pallido
  9. Bird
  10. J. Edgar
  11. Richard Jewell
  12. Mezzanotte nel giardino del bene e del male
  13. Potere assoluto
  14. Il corriere (The Mule)
  15. Cry Macho
  16. Changeling
  17. Debito di sangue
  18. Sully
  19. Jersey Boys
  20. Invictus
  21. Brivido nella notte
  22. Fino a prova contraria
  23. Il texano dagli occhi di ghiaccio
  24. Honkytonk Man
  25. Gunny
  26. Assassinio sull’Eiger
  27. Space Cowboys
  28. Cacciatore bianco, cuore nero
  29. La recluta
  30. L’uomo nel mirino
  31. Breezy
  32. Coraggio, fatti ammazzare
  33. Lo straniero senza nome
  34. Corda tesa

Quelli che seguono, invece, sono i film che Clint ha interpretato, senza curarne anche la regia. In rosso, i cinque capitoli della saga di Dirty Harry:

La camera azzurra [La chambre bleue] – Mathieu Amalric, 2014 – 8

Ripercorso con fedeltà, nella sua freddezza geometrica, il romanzo di Simenon (1964) diventa un film sull’amour fou, con ottimi interpreti che gli conferiscono una conturbante ambiguità.

Nella placida provincia francese, non lontano da Poitiers, due adulteri quarantenni, Julien e Esther, ci vengono mostrati mentre fanno sesso nella camera azzurra dell’Hotel de la Gare. Lui è sposato con Delphine, hanno una bambina, mentre lei è legata al proprietario della farmacia.

Si erano conosciuti molti anni prima, ma Julien se n’era andato e aveva fatto ritorno dopo quindici anni. Eshter l’aveva sedotto. Per undici mesi, i due avevano consumato la loro relazione segreta, lei esponeva un asciugamano rosso alla finestra, nei giorni in cui poteva vederlo; per Julien, era “la sola donna con cui ho sperimentato la pienezza dell’amore fisico”. Ma non è una dichiarazione d’amore, fa parte di un verbale di polizia.

Il film, infatti, procede attraverso interrogatori compiuti dai poliziotti, da uno psicologo e infine dal giudice istruttore. Sia Eshter che Julien stanno in carcere, accusati di aver ucciso i rispettivi consorti… È lo stesso regista a interpretare Julien, Léa Drucker è sua moglie, Stéphanie Cléau è Esther, Laurent Poitrenaux il giudice; a firmare la sceneggiatura sono Amalric e Cléau, proprio gli attori che interpretano gli amanti.

Eshter rimpiange gli anni in cui sono stati lontani, afferma di essersi sposata solo perché Julien non c’era, un giorno gli chiede: «Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?»… Ma quel rapporto clandestino è vissuto in maniera diversa, Julien non sembra deciso a chiudere con la sua famiglia. Un pomeriggio, mentre sono nudi nella camera azzurra, Julien veda il marito di Eshter dalla finestra e ha una crisi di panico. Fugge. Lei gli invia biglietti, che lui distrugge.

Quando i due si rivedono davanti al giudice, è evidente il sospetto che abbiano pianificato i delitti e agito per un “tacito accordo”.

Le frontiere dell’odio [Copper Canyon] – John Farrow, 1950 – 5

Johnny Carter si presenta come attore di varietà, mago e giocoliere, ma fra gli spettatori qualcuno crede di riconoscere il colonnello Desmond, dell’esercito sudista. Lui nega di essere l’uomo che cercano, e rifiuta di correre in aiuto degli ex sudisti vittime di prepotenze a Coppertown: lavorano in una miniera di rame, ma l’unica fonderia appartiene a un unionista, che rifiuta di fare affari con gli ex nemici; costretti a portare il minerale altrove, vengono spesso rapinati.

Pare che il colonnello Desmond, fatto prigioniero dall’Unione, fosse riuscito a fuggire con la cassa del reggimento: ventimila dollari. Sulle sue tracce, un biondo tenente nordista (Harry Carey Jr.) va a Coppertown, dove vivono i parenti dell’ex colonnello, ed è così che incontra una giovane vedova e se ne innamora.

Arriva la diligenza, ne scendono sette ballerine e Johnny Carter, che già dal primo incontro corteggia Lisa Rosell, la donna che gestisce il saloon e pare legata al violento vicesceriffo Travis. Di nuovo, gli ex sudisti premono su Carter, a cui pare interessi solo Lisa, “una avventuriera di New Orleans astuta e senza scrupoli”.

Sceneggiatura balbettante, tutta incentrata sull’ambiguità: di Carter (ma il pubblico capirà subito che non è chi dice di essere) e di Lisa (il cui legame con Travis è solo opportunista). Del resto, Ray Milland sa essere ambiguo, con quel sorrisetto sornione che cominciai a odiare quando voleva far uccidere Grace Kelly, sua moglie in Delitto perfetto. E Lisa è Hedy Lamarr, di sfolgorante fotogenia a trentasei anni, certo non favorita dall’abbigliamento castigato dell’epoca.

L’inevitabile amore fra il tenente e la giovane vedova allude a una piena riconciliazione nazionale. Girato in Technicolor fra l’Arizona e la California del sud, la fotografia è di Charles Bryant Lang Jr. (1901-98), Oscar nel ‘32 per Addio alle armi e candidato altre diciassette volte; era il nonno di Katherine Kelly Lang, la Brooke Logan di Beautiful.

Con Hedy Lamarr

Gli avvoltoi hanno fame [Two Mules for Sister Sara] – Don Siegel, 1970 – 6

Se con “spaghetti western” non si intende solo una categoria geografica, questa pellicola merita di rientrarci. Western atipico, ambientato durante l’occupazione francese del Messico (1862-1867), il soggetto di Budd Boetticher venne sceneggiato dal grande scrittore Albert Maltz (blacklisted), con musiche di Ennio Morricone. Nei titoli di testa, il nome di Shirley MacLaine viene prima di quello di Clint Eastwood.

Gli spietati era dedicato alla memoria di “Sergio e Don”, i due maestri. Nell’arco di una dozzina d’anni, Clint recitò in cinque pellicole di Siegel, questa è la seconda, dopo Coogan’s Bluff, e sono convinto sia il film invecchiato peggio. Non mi convince nemmeno la chimica fra i due mattatori: lei è doppiata da Fiorella Betti, lui da Pino Locchi.

Sara è una suora, Hogan un mercenario texano: le loro strade si incrociano quando lui la salva da tre malfattori che l’hanno denudata e stanno per stuprarla. Lo spettatore se lo chiederà subito se sia davvero una suora, anche perché Hogan non manca di esibire il suo disagio (e il suo apprezzamento: gli sarebbe piaciuto conoscere Sara prima che vestisse quegli abiti). Primo battibecco: lei vuole dare cristiana sepoltura ai tre banditi, ma lui preferirebbe lasciarli in pasto agli avvoltoi.

Suor Sara odia i francesi, Hogan ha un accordo con i guerriglieri “juaristi”, che vogliono riportare al potere il legittimo presidente, Benito Juarez: non è un idealista, lo fa per soldi e la trama diventa simile a quella di Giù la testa, ma con meno verve e un’insistita tendenza alla farsa. In un deserto messicano fotografato da Gabriel Figueroa, la coppia avanza verso l’Ora X. Quanto alla vera professione della suora, si rivelerà la più antitetica (Irma la dolce).

Scena cult: l’estrazione della freccia Yaqui dalla spalla di Hogan, con Sara che segue le istruzioni dell’uomo che si sta ubriacando per sopportare il dolore. Assalto finale al forte francese, sovraccarico di sangue e dinamite.

Di e con Clint Eastwood

I bassifondi di San Francisco [Knock on Any Door] – Nicholas Ray, 1949 – 7

I panni dell’avvocato non sono quelli in cui Bogart ha lasciato l’impronta più profonda, qui il suo personaggio deve provare l’innocenza di un giovane sbandato su cui grava l’accusa dell’omicidio di un poliziotto che lo stava inseguendo dopo un furto. Il delitto è mostrato da lontano, il colpevole ha scaricato sulla vittima l’intero caricatore.

Trasparente anticipazione di Gioventù bruciata, dramma sociale e legal thriller in un bel bianco e nero con le musiche di George Antheil, fu l’esordio di John Derek, futuro regista nonché marito di Ursula Andress, Linda Evans e Bo Derek, protagonista in Exodus e ne I Dieci comandamenti.

Derek interpreta Nick Romano, italo-americano che rischia la sedia elettrica dopo che un testimone l’ha riconosciuto fra dieci indiziati. L’avvocato Andrew Morton (voce di Emilio Cigoli) torna al diritto penale dopo anni passati a occuparsi di finanze; i soci l’hanno sconsigliato di seguire il caso, ma Andrew viene dagli stessi slums di Nick e non può sottrarsi, anche per un oscuro senso di colpa.

In tribunale, chiederà alla giuria di poter riepilogare i momenti in cui la sua vita si è intrecciata a quella dell’accusato: una serie di flashback, a partire da sei anni prima. L’avvocato spiega come un piccolo delinquente sia potuto diventare un criminale, incattivito da riformatorio e carcere. Con la forza di volontà, Morton è riuscito a scrollarsi di dosso quell’ambiente mefitico, mentre Nick a quanto pare non ce l’ha fatta. Neanche il rapporto con Emma, una ragazza onesta di cui si innamora e sposa, riesce a tenerlo lontano dal crimine. La seconda parte della pellicola scorre senza lampi, in aula, fino all’inevitabile chiamata di Nick sul banco dei testimoni. Esito prevedibile.

Nei panni dell’Accusa, l’odioso (e sfregiato) George Macready. Più melò che noir, per l’accanimento del destino. Ma di “seconde possibilità”, Nick ne ha sprecate tante.

A proposito di Humphrey Bogart

Mon crime. La colpevole sono io [Mon crime] – François Ozon, 2023 [cine2.941] – 7

La raffinatezza di un certo cinema francese mi fa accantonare rilievi che non risparmierei a un film italiano, e stavolta la fascinazione raddoppia davanti alla scoperta di una nuova “morettina”: Rebecca Malder, Classe 1995, occhi pettinatura zigomi ed eleganza fuori del comune. Mi ha fatto pensare a Fanny Ardant da giovane, qui Rebecca fa da “spalla” alla bionda protagonista, interpretata da Nadia Tereszkiewicz.

Con la solita, invidiabile grazia, accanto alle due giovani donne al centro del plot, si muovono attori strepitosi, che paiono divertirsi nel passare di lì: su tutti, Isabelle Huppert, e poi Fabrice Luchini, Dany Boon e André Dussollier.

Fotografata da Manuel Dacosse, entriamo in una Parigi del 1935 così artefatta che somiglia a Ratatouille più che al mondo vero. Il tono è quello della farsa. C’è un delitto, segue un processo, una donna confessa e viene sommersa dagli applausi. È fin troppo chiaro che è innocente e sta recitando una parte, vi contribuisce anche l’avvocato dell’imputata – Rebecca Malder, appunto – autrice dei testi che l’amica, nel corso del processo, recita con grande immedesimazione.

Madeleine e Pauline – attrice senza contratti e avvocato senza clienti – erano allo stremo, senza soldi, prossime allo sfratto per morosità, quando la prima viene accusata dell’omicidio di Montferrand, uno squallido produttore teatrale da cui si era recata per un colloquio, e che voleva solo approfittare di lei. Madeleine e Pauline comprendono che dichiararsi colpevole può portare dei vantaggi.

Di solito, nel dramma giudiziario un innocente viene ingiustamente accusato; stavolta l’innocente si dichiara colpevole di qualcosa che non ha fatto, e diventa idolo per tante donne che chiedono diritti (il voto in Francia venne concesso il 21 aprile 1944). E quel Montferrand somiglia sinistramente a Harvey Weinstein.

Omaggio a Billy Wilder, alla sua prima regia, Amore che redime, prima di fuggire in America. Quanto a Rebecca Marder, non la perderò di vista; l’avevo appena notata qualche mese fa, in Tromperie (Inganno), dal romanzo di Philip Roth.

Pietà per i giusti [Detective Story] – William Wyler, 1951 – 8

New York City, Distretto di Polizia numero 21, un campionario di poliziotti stanchi e piccoli delinquenti, spesso recidivi. Spicca Kirk Douglas, nei panni del detective Jim McLeod: un tipo inflessibile, incorruttibile, implacabile, intimamente lacerato nella vita privata: ama la moglie Mary (magnifica Eleanor Parker), ma non riescono ad avere figli. Forse è per questo che McLeod non transige con Schneider, un medico espulso dall’Ordine per aver praticato aborti; lo interpreta George Macready, fra i volti più odiosi del secondo dopoguerra: già marito di Gilda e più tardi sadico ufficiale in Orizzonti di gloria.

Nel Distretto sono accalcati delinquenti recidivi e poveracci colti con le mani nel sacco, i poliziotti mostrano molta umanità (su tutti il magnifico Brody di William Bendix), tranne McLeod, ormai travolto dalla sua crociata personale. “Il male si riconosce dall’odore… Ho imparato a mie spese, mio padre era di quella pasta”. Ma una testimone oculare muore, un’altra ritratta, l’indagine gli crolla fra le mani: perde le staffe, picchia l’ex medico, il capo del Distretto (Monagham: Horace McMahon) medita di punirlo con un provvedimento disciplinare, ma nutre il sospetto che vi sia qualcosa di più. Qualcosa di personale (il pubblico è spinto a pensarla come lui).

Dalla pièce Detective Story (1949) di Sidney Kingsley, in questo noir tutto compresso in due stanzoni di polizia, con grande equilibrio Wyler piega la trama a una dimensione davvero tragica: avendo scoperto qualcosa sulla moglie che non avrebbe mai voluto sapere, McLeod prorompe in una reazione ingiustificabile anche per quel 1951. Il suo dolore è spaventoso. Riuscirà a perdonarla? E Mary potrà dimenticare le parole odiose che le ha rivolto?

Candidatura all’Oscar per la migliore sceneggiatura a Philip Yordan e Robert Wyler, candidati anche il regista, la Parker e Lee Grant (attrice non protagonista). E, come ho già scritto, ritengo Kirk Douglas il più grande attore degli anni Cinquanta.

Film con Kirk Douglas

Maccheroni – Ettore Scola, 1985 – 7

Al netto di vari difetti (personaggi si intrufolano nella trama, assumono un ruolo importante e scompaiono; la camorra trattata come un fatto di colore) e di qualche scivolata nel sentimentalismo, è uno di quei film in cui molte inquadrature sono mirabilmente stipata da due dei volti fondamentali del cinema del Ventesimo secolo: Marcello Mastroianni e Jack Lemmon. Staresti a guardarli anche se restassero zitti per venti minuti.

Sono vecchi amici, si ritrovano dopo quarant’anni: Antonio ha coltivato quel legame “letterariamente”, mentre Robert l’ha rimosso e vorrebbe continuare a farlo, se non fosse che l’imprevisto risveglia la sua indole migliore, sepolta e rimossa (in un dialogo allude ai motivi per il suicidio che lo accompagnano da un decennio).

Musiche di Trovajoli; soggetto e sceneggiatura di Maccari, Scarpelli e Scola; prodotto da Franco Committeri, Aurelio e Luigi De Laurentiis, nella loro amata Napoli, mostrata spesso sotto la pioggia e terzo protagonista della pellicola. Di Giuseppe Rinaldi la voce di Lemmon.

Era con le truppe del generale Clark, da allora non ha più visto Napoli: per Robert Traven, vicepresidente di una grande industria aeronautica, il ritorno è segnato dal jet lag e dalla depressione. Ancora intontito, si trova davanti Antonio e lo scambia per un approfittatore, mentre l’amico voleva solo mostrargli una vecchia foto insieme a Maria, la sorella minore, con cui Robert aveva avuto una relazione. Pessimo inizio. Ma Robert va a scusarsi, conosce la moglie di Antonio, vede il suo “ufficio” (un archivio del Banco di Napoli) e sente il bisogno di rivedere Maria (ormai madre, anzi nonna). È allora che scopre le decine di false lettere, avventurose e bellissime, che per anni Antonio le ha spedito a suo nome.

A Napoli, Robert passa tre giorni scarsi, ma mai come in queste ore si rende conto di quanto sia arida la sua vita e della necessità di cambiarla. Finale mistico, davanti ai maccheroni fumanti in attesa che suoni l’una, l’ora dei miracoli…

Il cinema di Ettore Scola

L’isola che scotta [La Fièvre monte à El Pao] – Luis Buñuel, 1959 – 8

Isola tropicale nell’Atlantico, Ojeda è esclusa dalle rotte turistiche internazionali. Una dittatura sudamericana vi ha installato una colonia penale con duemila detenuti comuni e cinquecento “politici”, costretti ai lavori forzati per i grandi proprietari terrieri.

Vediamo la fulgida Inés (María Félix, 45), moglie del Governatore Vargas, mentre bacia il colonnello Olivares: sono amanti, la cosa è nota da tempo al segretario del Governatore, Ramón Vasquez (Gérard Philipe, 37), segretamente innamorato della donna. Stanco di quella situazione, Olivares chiede a Inés di raggiungerlo “sul continente”, ma lei lo respinge: “L’amore non c’entra affatto con quello che c’è fra noi due”.

Geloso e minaccioso, sgradevole alla vista, il Governatore Vargas spadroneggia sull’isola e tiene buone le masse con feste, cibo e musica. Ottusamente, si è convinto che Vasquez sia l’amante della moglie: la picchia, alle grida di Inés accorre il segretario, Vargas se ne va alla parata, Ramón consola la donna, le dice di amarla… Sarà subito evidente che l’idealismo di Ramón Vasquez è viziato da tanto opportunismo. Mentre sta pronunciando un comizio, il Governatore viene raggiunto da un colpo di fucile, l’ha sparato Garcia, un militare ribelle, che riesce a dileguarsi, approfittando della confusione.

Entra in scena un terzo personaggio, Alejandro Gual (Jean Servais, 47), stretto collaboratore del Presidente Barreiro. Prima fa arrestare con l’inganno Gardenas, il più noto esponente dell’opposizione democratica, poi lo fa deportare sull’isola di Ojeda. Gardenas era stato l’insegnante prediletto di Vasquez, che se lo ritrova davanti in catene.

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Don Jon – Joseph Gordon-Levitt, 2013 – 6

Scritto, diretto e interpretato da Joseph Gordon-Levitt – Inception, Snowden, l’ultimo Batman di Nolan – in quella che rimane la sua unica regia di un lungometraggio.

“Non c’è niente di meglio del porno, neanche una figa vera”, ci dice Jon Martello Jr., soprannominato “don Jon”. E spiega: nel sesso vero, devi preoccuparti anche dell’altra e ti tocca venire nel preservativo, manca quella varietà di fantasie eccitanti per un maschio italo-americano del New Jersey. Uno che ci tiene alla famiglia e non manca mai alla messa della domenica, dove si confessa e riceve l’assoluzione (i pater e gli ave li reciterà mentre fa body building).

Ogni sera Jon rimorchia una donna diversa, ma nella notte riaccende il computer (sequenza di immagini subliminali): solo così raggiunge un pieno appagamento. Finché incontra la sensualissima Barbara – cioè Scarlett Johansson. Ed è lei a dettare legge: non gli si concede, pretende di conoscere amici e genitori, lo porta al cinema per film romantici, lo spinge a riprendere le scuole serali. Infine, lo fanno (la pazienza di lui ha un limite), ma ancora una volta Jon va al computer per guardarsi un porno. Lei lo scopre. Lui nega, promette di non farlo più… E qui c’è l’idea più originale. Alle scuole serali, si fa avanti Eshter (Julianne Moore) e anche lei ama il porno.

Dalla “cronologia” (funzione che lui nemmeno conosceva), Barbara scopre che Jon non ha mai superato quella sorta di “dipendenza”. Lo lascia. E Jon torna alla vita di prima: “Che si fotta, la stronza”. Presto fa sesso con quella donna più vecchia di lui, che ha perso il marito e il figlio in un incidente stradale. Grazie a lei, diverrà una persona diversa.

Momento catartico: a tavola, nei tradizionali pranzi domenicali, la sorella minore (Brie Larson) non apre mai bocca, sempre impegnata a chattare sullo smartphone. Ma un giorno si ferma e dice a Jon che è stato meglio così: la perversione di Barbara è manipolare un uomo che esegua ogni suo ordine.

China Blue [Crimes of Passion] – Ken Russell, 1984 – 5

Lontani i tempi in cui ogni film di Ken Russell era oltraggioso, dava scandalo e provocava i benpensanti. Qui di scandalo non ce n’è – a meno di non considerare tale il modo in cui si sfascia un matrimonio – e la provocazione è solo nelle intenzioni. Mostrare quanta frustrazione sessuale sia diffusa nelle città americane.

Con un’orrenda parrucca bionda, Joanna – affermata stilista – ogni notte si trasforma in China Blue, prostituta che si presta a soddisfare ogni genere di perversione. China Blue attira l’attenzione di un “reverendo” fanatico, tal Peter Shayne, sguardo folle dietro occhiali dalla montatura metallica, che decide di salvarla, redimerla. O sopprimerla.

Lei è Kathleen Turner: appena due anni prima aveva ipnotizzato il pubblico in Brivido caldo. Lui è Anthony Perkins: era passato quasi un quarto di secolo da quando gestiva il Bates Motel.

Si inserisce una terza figura, quella di Bobby Grady: l’attore – John Laughlin – è fra i più inespressivi mai apparsi sullo schermo, e certo la sceneggiatura non lo aiuta. Bobby, infatti, sarebbe un marito affettuoso per Amy, ma Amy ha smesso di fare sesso con lui e il matrimonio si sta avvitando in incomprensioni e distanze sempre meno recuperabili. Per caso, Bobby fa la conoscenza di China Blue: ha pedinato Joanna per conto del suo principale (convinto che lei vendesse i prototipi dei disegni), ne resta attratto, non lo sconvolgono la sua doppia vita, né la scoperta delle sevizie subite da bambina, e non resiste alla tentazione di rivederla e farci un po’ di sesso. Dall’amore mercenario, evolveranno in autentica passione.

Intanto il Reverendo – che non ha mai smesso di frequentare peepshow – comincia a uccidere prostitute usando un gigantesco fallo metallico. Anche lui ha scoperto la vera identità di China Blue… Mi fermo qui, la storia è un pasticcio con scarsa suspense, che si concluderà con una citazione kitsch di Psycho.

Roboanti ed enfatiche le musiche di Rick Wakeman, tornato accanto a Russell dopo Listzomania.

Matrimoni e altri disastri – Nina di Majo, 2010 – 5

Una Firenze e una campagna da cartolina, morbide e laccate, cuccia accogliente per una famiglia dell’alta borghesia toscana: in questo ambiente si colloca la storia di Giovanna (Margherita Buy), detta Nanà, quarantenne ancora attraente – single, anzi zitella – che sul salvaschermo tiene il conto dei giorni passati dall’ultima volta che ha fatto sesso, e gestisce una piccola libreria insieme all’amica Benedetta (Luciana Littizzetto), a sua volta in cerca di marito.

Segretamente innamorata di un romanziere fascinoso quanto narciso, Nanà è costretta a occuparsi del matrimonio della sorella minore, Beatrice (Francesca Inaudi), donna in carriera che amministra l’azienda vinicola di famiglia e sta per legarsi ad Alessandro (Fabio Volo), un tipo che a prima vista risulta insopportabile e naturalmente farà cambiare opinione a Nanà e al pubblico in sala.

Organizzare le nozze innesca la presa di coscienza di Nanà, ennesimo personaggio problematico che Buy incarna nel solito modo, goffo e cervellotico, facendo da calamita ai problemi altrui. Intorno a lei, emergono verità nascoste per decenni, altre verità a cui nessuno crede, ipocrisie e tradimenti assortiti, una latente competizione fra sorelle, in un clima fin troppo garbato, senza spigoli. Maschere televisive come Luciana Littizzetto e Fabio Volo aiuteranno gli incassi, non l’originalità della proposta, a distanza siderale dalle sfumature di un Rohmer o dalla satira di Virzì.

Alla regista napoletana manca la cattiveria necessaria per far sì che i personaggi assumano un carattere interessante. Così, la trama scade nel sentimentalismo dell’incomunicabilità (la doppia scena sulla porta di casa, con Nanà che non vuole vedere la sorella e la madre), e in lieto fine poco convincente ma in sostanza inevitabile.

Riappare Marisa Berenson, indimenticata Lady Lyndon.

La messa è finita – Nanni Moretti, 1986 – 8

Deluso da tutti, incapace di accettare il collasso morale da cui si sente circondato, don Giulio infine desiste. Non ce la fa a trovare le forze per affrontare questo catalogo di amarezze. Ricorda di aver sentito parlare di una piccola missione nella Terra del Fuoco…

Dopo una decina di anni trascorsi ai margini della società, lontano da tutto, don Giulio viene destinato a una parrocchia della periferia romana. Roma è la sua città. Rivede i genitori, la sorella, amici dell’adolescenza, fa la conoscenza del prete spretato che l’aveva preceduto (ha fatto un figlio, costruito una famiglia, è felice). Ogni volta, incassa una delusione.

I vecchi amici? Uno è in carcere, processato per terrorismo; un altro si è isolato da tutti per una delusione d’amore; un terzo è omosessuale e si sottopone a situazioni rischiose; un quarto si è messo in testa di studiare catechismo e diventare sacerdote. La sorella è incinta, ma non vuole tenere il bambino; l’anziano padre si è innamorato di una trentenne e ha deciso di lasciare la madre.

Il giovane prete è di saldi principi, ma non dispone di ricette salvifiche. Moretti – per la prima volta uscito dai panni di Michele Apicella – forse ha visto Nazarìn di Buñuel, e in ogni caso riesce a disegnare un personaggio travolto dall’impotenza. Nessuno lo ascolta. Il suo altruismo risulta totalmente vano.

Colonna sonora di Nicola Piovani, con l’inserimento di tre canzoni, al solito autobiografiche: Bruno Lauzi, Ritornerai, Franco Battiato, I treni per Tozeur e Loredana Bertè, Sei bellissima. Resta una delle migliori interpretazioni di Moretti – la cui regia è quantomai sobria e stilizzata: una serie di “quadri” in successione, dotati di un senso autonomo -, attorniato da un gruppo di attori al loro meglio: Marco Messeri, Ferruccio De Ceresa, Margarita Lozano, Vincenzo Salemme, Dario Cantarelli, su tutti Enrica Maria Modugno, nei panni della sorella Valentina. Il rapporto fra i due fratelli raggiunge straordinarie punte emotive.

La Passione – Carlo Mazzacurati, 2010 – 6

Un regista in crisi di ispirazione – da tempo non azzecca più un film – si trova obbligato a sottostare a uno strano ricatto.

Parte da qui la commedia di Mazzacurati, ambientata a Casale, splendido borgo del grossetano, fra saliscendi e stradine lastricate. Una dimensione fuori dal tempo.

Controvoglia, costretto a dirigere la tradizionale cerimonia pasquale, trasformando gli abitanti in attori, il regista prova a estrarre il meglio da una serie di outsiders – personaggi in vario modo eccentrici, sopra le righe – e con una corsa contro il tempo riesce a mettere in scena una rappresentazione non priva di pathos.

A priori, pensavo che Silvio Orlando e Giuseppe Battiston avrebbero avuto una miglior “chimica”, invece le qualità della loro recitazione non si rafforzano a vicenda. Divertente l’apparizione di Corrado Guzzanti, con la sua voce impostata (“prima che il gatto canti”), autoironica quella di Cristiana Capotondi, emotivamente forti i silenzi di Kasia Smutniak, la cui biografia ha tragicamente incrociato questo film. Del cast fanno parte anche Stefania Sandrelli, Cristiana Capotondi e Marco Messeri. Ancora una volta, per Mazzacurati il mondo della provincia rappresenta il luogo privilegiato della sua esperienza. In questo caso, ha spiegato che il fulcro va individuato nel panico di quando si perde l’ispirazione, ma anche se si tratta di una sensazione autobiografica, non ha saputo ritrovare “la giusta distanza”. La storiella strappa qualche risata, ma prevale l’amarezza catartica e molti personaggi rimangono abbozzati.

Fra le idee più riuscite, quella dei due extracomunitari ingaggiati nel ruolo dei ladroni, e quella del terrazzino all’aperto, unico luogo “connesso” con la modernità: solo lassù il regista può usare il cellulare e sfuggire a un’autoimposta, punitiva camicia di forza.

La più bella serata della mia vita – Ettore Scola, 1972 – 7

Targa di Milano, auto sportiva (“Maserati Indy color aragosta”, terrà a specificare), un italiano – anzi, Alberto Sordi – va in Svizzera e ritira cento milioni di denaro contante.

Soggetto e sceneggiatura di Sergio Amidei e del regista, musiche di Trovajoli. Liberamente tratto dal racconto La panne, di Friedrich Dürrenmatt, a volte se ne discosta con idee persino più convincenti.

Donnaiolo (scopriremo che è sposato e ha figli), l’uomo si invaghisce di una motociclista tutta racchiusa in pelle nera. La segue. Diventa chiaro che lei lo sta portando dove vuole. Su una strada di montagna, l’auto si ferma (ecco, la panne) e la motociclista fila via. Con la sua borsa piena di banconote, l’uomo arriva a un castello. All’ultimo conte de La Brunetière, l’uomo dice di chiamarsi Alfredo Rossi, romano trapiantato a Milano. Arrivano altri ospiti, tutti ex magistrati ed ex avvocati in pensione; si divertono con “la Giustizia”: “ci inventiamo un processo”. Rossi sta per ripartire, l’auto non ha più problemi, ma rivede la donna: prima nuda, mentre si asciuga i capelli, poi come cameriera (Janet Agren a ventitré anni). E decide di fermarsi a cena e per la notte.

Nel corso di una cena luculliana, Alfredo confessa di aver commesso una quantità di piccoli reati, a partire dall’esportazione illegale di capitali. “Non ho nulla da nascondere”… “Non vorrei che loro pensassero male di me”. Vanitoso, opportunista, rilascia dichiarazioni sincere quanto compromettenti. Nel processo che si svolge, il Pubblico Ministero (Michel Simon) lo dipinge come una sorta di eroe negativo, gli regala una certa grandezza, mentre la Difesa (Pierre Brasseur) cerca di mostrarlo come un mediocre piccolo-borghese (Sordi fa l’offeso con un’abilità fenomenale). Infine, il giudice (Charles Vanel) emette la condanna a morte…

Sublime paradosso di Durrenmatt: il colpevole si compiace del ritratto che esce dalla requisitoria dell’Accusa ed è deluso dall’avvocato che cerca di difenderlo.

Ettore Scola su queste pagine

Bastardi senza gloria (Inglourious Basterds) – Quentin Tarantino, 2009 – 8

Davanti a Tarantino, provo le stesse sensazioni dell’indigestione. Visiva, ma pur sempre pesante. Comincio strabuzzando gli occhi (o chiudendoli per certe scene insostenibili) e finisco sazio, con un po’ di nausea da accumulo.

La genialità è fuori discussione, in certi momenti sembra di assistere al ruminare del suo cervello-betoniera, mentre macina tonnellate di vecchio cinema e le sputa trasformate nella sua “opera”.

Qui ci sono idee per 4-5 film, alcune solo abbozzate, altre un po’ sprecate oppure “tirate” fino allo sfinimento, seguendo la lezione di Sergio Leone.

È preferibile vederlo in lingua originale (con sottotitoli), per apprezzare le diverse lingue mischiate – francese, inglese, tedesco, anche una parodia di italiano.

In altre mani, una storia simile sarebbe caduta nel ridicolo, invece sfiora l’Epica, la Tragedia, la Catarsi, obbligando lo spettatore ad abbandonare la banale verosimiglianza per cibarsi del sogno dell’autore.

In questa Francia occupata dai nazisti, Tarantino immette almeno due figure indelebili: Shosanna Dreyfus (Mélanie Laurent), la ragazzina che assiste allo sterminio della sua famiglia, e il colonnello nazista Hans Landa (Christoph Waltz), “cacciatore di ebrei”, segugio dotato di un fiuto eccezionale e di un’ambiguità che provoca risate.

Poi ci sono loro, gli Inglorious Bastards – capitanati da un Brad Pitt sanguinario quanto sorridente, cantilenante sudista del Tennessee -, che si mettono in testa di uccidere il Führer e finire la guerra, architettando un piano insieme a una diva del Terzo Reich, Bridget Von Hammersmark (Diane Kruger, nata per la parte).

Centinaia di morti ammazzati, sangue a fiotti, teste scalzate dal collo con mazze da baseball, svastiche tatuate sulla fronte, belle donne strozzate o sforacchiate di proiettili… Eppure, è un film di dialoghi più che d’azione.

A Tarantino piace ubriacare, in tutti i modi possibili: non gli si può chiedere anche il senso della misura?

Un chien andalou, Luis Bunuel, 1929

Venti minuti per rivoluzionare la storia del cinema, imponendo un nuovo punto di vista: scritto e prodotto in Francia da Buñuel e Salvador Dalí, segna l’irruzione del Surrealismo nella Settima Arte.

Fotografia di Albert Duverger, scenografia di Pierre Schilznech, montaggio di Buñuel. Solo nel 1960, sotto la direzione del regista, venne aggiunta la colonna sonora, la stessa musica diffusa, tramite registrazioni fonografiche, alla proiezione del 1929: due tanghi argentini e il Liebestod dal Tristano e Isotta di Richard Wagner.

Buñuel si riserva il ruolo dell’uomo con il rasoio, Dalí è uno dei due preti; i personaggi principali, anonimi, sono affidati a Simonne Mareuil e Pierre Batcheff.

Dal susseguirsi di sequenze sconnesse, lo spettatore può ricavare l’impressione di assistere alla messa in scena di un delirio onirico, oscuro e indecifrabile, da sottoporre alla psicoanalisi. Con un attacco frontale, allo spettatore veniva proposto qualcosa di inedito, mai visto prima. Immediato shock visivo: il regista affila un rasoio, guarda la luna, si avvicina a una donna seduta, le tiene ben aperto l’occhio sinistro e nell’inquadratura successiva lo seziona con il rasoio (ovviamente è un trucco di montaggio, a venire tagliato è l’occhio di un vitello morto, ma è difficile immaginare come reagirono gli spettatori dell’epoca; tuttora, su questa immagine, c’è chi preferisce chiudere gli occhi).

Vi sono varie dissolvenze incrociate e immagini al rallentatore. Di didascalie, solo cinque, a scandire un passare del tempo non cronologico, privo di appigli logici: C’era una volta, Otto anni dopo, Alle tre del mattino, Sedici anni prima, In primavera. Ecco un riassunto arbitrario, derivato dalla visione di due versioni della pellicola, di ventuno e di diciassette minuti.

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Dossier Odessa [The Odessa File] – Ronald Neame, 1974 – 7

Fu uno dei primi film che vidi al cinema “in città”, mi lasciò una forte impressione per come segnalava l’attualità del nazismo; da un romanzo di Frederick Forsyth, venne girato in Germania e poté contare sulla collaborazione di Simon Wiesenthal.

Amburgo, novembre 1963: Peter Miller (Jon Voigt) sente alla radio della morte di Kennedy a Dallas. Reporter freelance, è ambizioso, scommette sullo scoop che gli cambierà la vita, ma intanto la fidanzata ballerina guadagna più di lui. Per caso, si imbatte nel suicidio di un anziano ebreo; un amico poliziotto gli fa leggere delle carte trovate accanto al cadavere. Un diario.

Ebreo tedesco, Salomon Tauber era stato deportato nel lager di Riga, dove vide morire la moglie. Comandante del campo era il sadico SS Eduard Roschmann, per vent’anni Tauber aveva vissuto per fare giustizia, quella speranza l’aveva persa… Indagando, Peter si accorge che molti in Germania non vogliono più sentir parlare di quelle storie (compresa la madre, vedova di un militare in carriera) e si convince che il suicida abbia rivisto Roschmann.

“Odessa” è il nome di un’organizzazione segreta neonazista; il giornalista si rende conto di quanto sono divenuti potenti i nazisti e di quali complicità possono approfittare. Va a Vienna, incontra Simon Wiesenthal; istruito dal Mossad, convinto che in Germania stiano costruendo armi per attaccare Israele, Peter cerca di infiltrarsi in Odessa. Da Monaco a Bayreuth, a Heidelberg, il suo addestramento si sviluppa in circa cinquanta giorni. Si ficca nei guai, rischia la vita. Infine, si trova faccia a faccia con “il boia di Riga” (Maximilian Schell). E il pubblico scoprirà che Peter Miller è mosso da un movente anche privato.

La prima ora è tesa e convincente, meno il finale, con una lunga scena notturna in tipografia e il dialogo didascalico nel castello di Rorschmann. Notevole Jon Voigt (1938), dopo Un uomo da marciapiede e Un tranquillo week-end di paura e prima dell’Oscar per Tornando a casa.