Cos’è, oggi, la sovranità? Alcune multinazionali hanno insediato imperi economici e dispongono di un potere ben superiore a quello di tanti Stati. Rucka ne ricava una distopia che immerge il lettore in un futuro prossimo venturo, dopo una presumibile guerra nucleare, quando il mondo potrebbe non essere più diviso in Stati, ma in ambiti economici e territori dominati da “famiglie” che difendono il loro monopolio con un guerriero, il Lazarus. Forever Carlyle è un essere artificiale, costruito in laboratorio e allevato fin dall’infanzia nella fede assoluta nella propria famiglia.
Questo volume raccoglie il primo ciclo di avventure, quattro capitoli e un breve preludio. Il primo numero è stato rilasciato il 23 giugno 2013. Ai disegni collaborano Stefano Gaudiano e Brian Level, i colori sono di Santi Arcas. È una serie progettata per durare anni, ma che sulla breve distanza risulta un poco ostica. Il mondo è suddiviso tra sedici famiglie rivali, che gestiscono i loro territori in un sistema feudale, fatto di “servitù” e “scarti”.
La famiglia ha una struttura patriarcale: a capo sta “il vecchio” Malcolm, poi ci sono cinque figli (Jonah, Beth, Steve, Johanna e Forever). Il Lazarus ha un fattore di guarigione che ricorda Wolverine: sembrava morta, invece si è ripresa e ha ucciso i tre incursori, penetrati chissà come fino alle celle frigorifere dei Carlyle, dove stanno le preziosissime sementi.
Linus Van Pelt aveva fatto la sua comparsa sulle strisce dei Peanuts il 19 settembre 1952.
La sua indispensabile coperta, invece, spunta il primo giugno 1954, e lo accompagnerà per sempre, consolandolo delle tante delusioni che gli riserva l’esistenza, prima fra tutte l’inesplicabile mancata apparizione del Grande Cocomero.
Un quarto di secolo fa, il 25 maggio 1998, apparve come silhouette mentre ballava con Snoopy: era la mitica “ragazzina dai capelli rossi”, nominata per la prima volta in una striscia dei Peanuts il 19 novembre 1961 e sul cui aspetto tutti avevano fantasticato.
Simbolo degli amori non corrisposti, si è poi scoperto fosse ispirata a Donna Mae Johnston, che Charles Monroe Schultz aveva conosciuto mentre lavorava come insegnante e della quale si era infelicemente innamorato. Donna Mae Johnston svolgeva il ruolo di contabile presso quella scuola, e si sposò con Allan Wold, un vigile del fuoco, nel 1950, quando Schulz iniziò a realizzare i Peanuts.
Jessica Jones si risveglia nel suo letto accanto al suo compagno, Luke Cage. Quel mattino, Jessica ha un appuntamento al Daily Bugle con il direttore del giornale, J.J. Jameson. Volendo sfruttare la popolarità dei supereroi, che pure detesta, Jameson ha deciso di pubblicare un supplemento settimanale – The Pulse (Il polso) – a loro dedicato, e chiede a Jessica di fare da “analista”, da consulente esterna; sarà Ben Urich a scrivere, ma sarà Jessica a ispirargli gli articoli che appariranno sul supplemento.
Jessica accetta la proposta, ha bisogno di un’assicurazione sanitaria e di uno stipendio sicuro, è incinta (ha sognato che sarà una bambina). Jameson è euforico: “Saremo il giornale con un supereroe nello staff”. A Ben Urich, un tempo prima firma del Bugle, Jameson non ha mai perdonato di non avergli rivelato la vera identità di Daredevil. I dialoghi di Bendis sono strepitosi, nel mostrarci come il dispotico direttore cerchi di strumentalizzare prima Jessica e poi Urich, per motivarli sul suo progetto.
Poi compare una giovane giornalista da poco assunta al Bugle: il suo nome è Terri Kidder, ha paura di perdere il lavoro, teme di non saper soddisfare le aspettative di Jameson, anche un grande giornalista come Urich può cadere in disgrazia. Un’intuizione spinge Terri a indagare su Norman Osborn. Non sa che è Goblin. Il cadavere della giornalista verrà trovato qualche ora dopo nel laghetto artificiale di Central Park…
Il segno di Gaydos non mi fa impazzire, ma la sua versione grafica di Goblin è di grande impatto. Coinvolta nella battaglia che scoppia al grattacielo Oscorp, Jessica si getta nel combattimento con Goblin, che riesce a fuggire. Contusa, la donna teme di aver abortito la bambina, la visita medica le restituisce un po’ di tranquillità.
Un bianco e nero molto contrastato è la scelta stilistica di Kerschl e Adams per impaginare questa miniserie fuori continuity, senza maschere e costume, senza supereroi e supercriminali, ambientata nella redazione del più famoso quotidiano del Marvel Universe. Un segno non particolarmente incisivo è riscattato da dialoghi e ritmi che riecheggiano atmosfere hard boiled.
I protagonisti sono Ben Urich e Betty Brant, un ruolo significativo lo svolgono pure J.J.Jameson e Robbie Robertson: sono giornalisti con la vocazione, incorruttibili, disposti a rischiare la vita per cercare (e pubblicare) verità scomode; Jameson custodisce il necrologio di Urich nella sua scrivania.
La miniserie è divisa in tre parti: “Prima pagina”, “Scoop” e “Scadenze”; alcune splash page riproducono le prime pagine del Daily Bugle. Si comincia con una visita guidata alla sede del giornale, attraverso la voce di un vecchio reporter, Charlie Snow. Scopriremo che Snow ha problemi di alcolismo.
Della Pop Culture e del mitico Sessantotto fanno parte pure oggetti come questo, un fantasy kitsch talmente invecchiato da riempire di noia, e talmente grottesco da chiedersi come sia potuto accadere che abbia fatto tanto discutere.
Comincia con uno spogliarello in assenza di gravità: le mani, le gambe, il volto di Jane Fonda e il resto del corpo, che si libera da una pesante e asessuata tuta spaziale. Per tutta la pellicola, Barbarella non farà che indossare vesti attillate e trasparenti: prodotto da Dino De Laurentiis, costumi firmati da Paco Rabanne.
In un lontanissimo futuro, l’universo vive in pace da secoli, ma l’astronauta Barbarella viene incaricata di scoprire che fine ha fatto lo scienziato che ha inventato il raggio positronico, potenziale arma. Cominciano sconclusionate peripezie interplanetarie (tutte dimenticabili, tranne quella contro le bambole dai denti metallici), con brevi intervalli erotici: da tempo immemorabile, il sesso è stato soppiantato da rapporti privi di contatto fisico, basta inghiottire una pillola e appoggiare il palmo della mano a quella del partner. Ma a Barbarella non mancherà l’occasione per riscoprire le vecchie, tradizionali pratiche.
David Hemmings da Blow Up, John Philip Law (biondo apollineo e con le ali) dal ben più riuscito Diabolikdi Mario Bava, la bruna Anita Pallenberg perché se c’è una bellezza bionda c’è bisogno anche di una bellezza bruna; in ruoli minori, appaiono Marcel Marceau e un villoso Ugo Tognazzi.
Jean-Claude Forest, che aveva creato il fumetto nel ‘62, fornì qualche consulenza; sui titoli di testa e di coda, Barbarella e An Angel Is Love, cantate da Bob Crew e Charles Fox.
All’epoca, Vadim era il marito di Jane Fonda, che è stata senza dubbio una grande attrice, con molti ruoli destinati a rimanere nella storia del cinema, ma quello di Barbarella mi sembra non meno imperdonabile dei video con cui fondò la religione dell’aerobica.
The Rocketeer nasce per la Pacific Comics quasi per caso: come ha raccontato lo stesso Stevens, nel 1981, quando aveva ventisei anni, gli venne chiesto di riempire qualche pagina di un nuovo comic book, e lui ideò un nuovo personaggio sintetizzando alcune sue passioni: la narrativa “pulp”, il design di aerei e auto degli anni Trenta, e la più famosa delle pin-up, Betty Page, trasformata nella fidanzata del protagonista, il pilota acrobatico Cliff Secord.
Nel 1938, a Los Angeles, il giovane pilota trova un pacco, contenente uno strano congegno a forma di missile: è il prototipo di uno zaino a razzo, che lo trasforma in eroe suo malgrado, con temerarie acrobazie e l’aiuto dell’amico meccanico Peevy, per contrastate spie naziste e salvare la sua amata, la conturbante Betty, ragazza disinibita, impegnata in “foto artistiche” con un equivoco fotografo di Hollywood (che la concupisce).
Da principio, Cliff tiene per sé il razzo perché vuole fare un po’ di soldi e riconquistare la ragazza. Ma Betty pensa sia un ragazzino “impulsivo, capriccioso, arrogante”, nonché terribilmente geloso. Dopo un primo decollo da cui si salva fortunosamente, Cliff impara a pilotare il razzo.
In queste 50 tavole a colori – la prima metà della saga – spiccano i disegni di Stevens. La loro estetica riecheggia le atmosfere dei comics anni Trenta (su tutti, Dick Tracy, il primo Capitan America e la prima Torcia Umana), a comporre una trama dichiaratamente disimpegnata, di puro intrattenimento.
Intrigo elementare, colori sgargianti, scazzottate, sparatorie e inseguimenti; la storia d’amore è ispirata alla classica situazione in cui la coppia fatica a dichiarare i propri sentimenti, insegue sogni diversi (e lei teme di legarsi a un uomo che conduce una vita molto pericolosa).
Diretto da Joe Johnston, nel 1991 è uscito un film ispirato al fumetto, ma essendo una produzione Disney non poteva figurarvi il personaggio di Betty Page. Interpretata da Jennifer Connelly, la fidanzata di Secord (Bill Campbell), si chiama Jenny Blake; nel cast anche Alan Arkin, Paul Sorvino e Timothy Dalton.
A fumetti, Natasha Romanoff è uno dei miei personaggi preferiti, per un decennio Scarlett Johansson (apparsa in Iron Man 2) si è rivelata un’ottima scelta per incarnarla nel Marvel Cinematic Universe, ma questo film delude le attese. Ventiquattresimo titolo del MCU, il primo della cosiddetta Fase Quattro, è collocabile dopo gli eventi di Civil War(2016).
È un’avventura in solitaria, senza gli Avengers, nella quale Natasha cerca di chiudere i conti con il suo oscuro passato. Più film di spionaggio che di supereroi, contiene la penultima apparizione di William Hurt, nei panni dell’odioso, patriottico Thaddeus “Thunderbolt” Ross. Del cast fanno parte anche Rachel Weisz, che interpreta Melina, la madre non biologica di Natasha, e la non meno splendida Olga Kurylenko, sacrificata da un trucco devastante.
Natasha non ha superpoteri, ma solo abilità sviluppate con l’addestramento e il sacrificio. Dopo lo scioglimento degli Avengers, si è nascosta in Norvegia, dove è vittima dell’attacco di Taskmaster, misterioso criminale mascherato. La fa decidere di andare alla ricerca della sorella minore, Yelena (Florence Pugh), e delle due spie sovietiche che le avevano cresciute in Ohio, come fossero loro figlie. Infine, Natasha affronterà Dreykov, il malvagio artefice del Programma Black Widow, colui che – fin dalla Guerra Fredda, nella famigerata Stanza Rossa – ha trasformato tante orfane, come lei e Yelena, in assassine a sangue freddo.
Ora, la Stanza Rossa è stata trasformata in una fortezza volante (un po’ come il comando dello SHIELD). Ma per fortuna, qualcuno ha inventato un antidoto, una fialetta rossa che servirà a liberare dal controllo mentale decine di altre “vedove”.
L’afflato femminista è evidente. Non mancano momenti di ironia: forzuto ubriacone, il padre non fa che confrontarsi con Captain America e si ficca sempre nei guai; Yelena prende in giro Natasha per quella caratteristica, cinetica posa da eroina, quando atterra dopo un lungo salto.
Un principe per Norma si può considerare l’avventura numero 60. Berardi compone una lunga storia (124 tavole) disegnata più o meno a metà da Ivo Milazzo, nelle parti in cui si snoda la trama, e da Giorgio Trevisan nella messa in scena (prove e spettacolo) dell’Amleto. La prima pubblicazione avvenne a puntate su Orient Express (nn. 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, edizioni L’Isola Trovata, fra luglio 1984 e febbraio 1985). Dunque, per la prima volta l’originale nasce a colori e in grande formato, precedendo le ristampe in bianco e nero.
Attraverso un montaggio alternato, sofisticati incastri narrativi puntano a mostrare la modernità di Shakespeare, e certe assonanze fra vicende narrate ai primi del Seicento e la vita di Ken Parker. Non nascondo che questa storia mise a dura prova il lettore, rimasto orfano della serie regolare e costretto a nutrirsi con il contagocce delle vicende del suo personaggio prediletto, spesso nascosto dietro il filo dei pensieri del principe di Danimarca, rievocato dalla Everett’s Theatrical Company, “compagnia viaggiante d’arte drammatica”.
La compagnia è imperniata su due famiglie, gli Everett e i Sullivan. Entrambi i nuclei familiari hanno alle spalle una lunga vocazione teatrale, ma non riescono a impedire che poco prima del debutto a Huntington (forse nello Stato di New York, duecento miglia a sud di Boston), Eveline Everett fugga insieme a Robert Sullivan, sedici anni lei, trenta lui. Senza quei due, diventa improbo l’obiettivo dell’anziano capocomico: rappresentare Shakespeare nella forma “più fedele possibile”. La parte di Amleto viene affidata a quel Ken Darnell che, due mesi prima, si era aggregato alla carovana e finora agiva nei panni del suggeritore, mentre del ruolo di Ofelia viene investita una bionda e procace ballerina, Norma Jean, che un vecchio attore con il vizio del bere ha appena raccolto in un locale, trovandola “forgiata dallo stesso scalpello che Fidia usò per la Venere”. La versione grafica di Norma Jean proposta da Milazzo è fenomenale.
Con Lungo Fucile, nel giugno 1983 cominciava la ristampa a colori delle avventure di Ken Parker; 48 tavole, rimontate alla “francese”: quattro strisce a tavola, in grande formato, editore L’Isola Trovata, copertine inedite, prezzo 5.000 Lire. La veste grafica divenne definitiva con la seconda uscita – Mine Town: testata rimpicciolita, come i nomi di Berardi e Milazzo, in alto a destra un cerchio con il primo piano del protagonista (l’oggetto mantiene la stessa altezza, ma si stringe di quasi un centimetro).
Seguono i seguenti albi: 3) I gentiluomini; 4) Omicidio a Washington; 5) Chemako (il prezzo sale a 6.000 Lire); 6) Sotto il cielo del Messico (la quarta di copertina rilancia le uscite già avvenute e pubblicizza Welcome to Springville, la miniserie realizzata da Berardi e Milazzo insieme a Calegari); 7) Colpo grosso a San Francisco; 8) La ballata di Pat O’Shane; 10) La città calda (disegni di Trevisan; nel cerchio in alto a destra scompare l’immagine di Ken, sostituita dal numero progressivo della “Collana West”); 12) Uomini, bestie ed eroi; 14) La lunga pista rossa (disegni di Trevisan e Calegari; il prezzo sale a 6.500 Lire); 16) Un uomo inutile; 18) Storia d’armi e d’imbrogli (disegni di Trevisan); 20) Lily e il cacciatore; 21) C’era una volta (disegni di Trevisan); 22) Casa dolce casa; 23) Milady (disegni di Trevisan); 24) Diritto e rovescio; 25) Odio antico (disegni di Trevisan); 26) Apache (il prezzo sale a 7.000 Lire); 27) A due passi dal paradiso (disegni di Trevisan); 28) I pionieri (disegni di Trevisan); 29) Boston; 30) Sciopero (maggio 1988).
Dunque, la ristampa si snoda lungo cinque anni, con una drastica selezione: vengono riproposte solo 24 delle 59 avventure pubblicate in bianco e nero nel classico formato bonelliano. Trovo alcune assenze meno comprensibili di altre: per esempio, Adah era già stata ristampata in un volume di pregio, mentre si sente la mancanza di splendide avventure come Pellerossa (26), La leggenda del generale (32), La donna di Cochito (45) e Storie di soldati (50).
La copertina originale viene riprodotta all’interno; le nuove illustrazioni di Milazzo sono sempre notevoli: limitandomi a cinque, le mie preferite sono quelle di Boston, Casa dolce casa, Lily e il cacciatore, Uomini, bestie ed eroi, Colpo grosso a San Francisco.
Viene finalmente indicato l’autore del lettering: Piero Ravaioli. Oltre a Giorgio Trevisan (suoi i disegni di ben otto numeri), vanno citati altri due nomi: il curatore della collana, Renato Queirolo, e soprattutto Maurizio Mantero, indicato come responsabile di “montaggio e colori”.
Fondata da Luigi Bernardi, L’Isola Trovata aveva cominciato a operare come società editoriale nel 1978; nell’84 venne acquisita da Sergio Bonelli. La Collana West chiuse dopo 31 uscite: alle 24 ristampe di Ken Parker, si aggiunsero sei “Storie del West” (nn. 9, 11, 13, 15, 17 e 19) in cui vennero raccolte opere realizzate da Roberto Ambrosio (script) e Paolo Eleuteri Serpieri (disegni), in gran parte uscite sulla rivista Lanciostory fra il 1978 e l’80.
Il numero 31 della Collana West (giugno 1988) è a sua volta una raccolta, ma ai seguaci di Ken Parker fece molto piacere: sotto al titolo Un alito di ghiaccio venivano recuperate le tavole apparse sulla rivista Comic Art (nn. 37, 38, 39 e 40, fra ottobre 1987 e gennaio ’88). Nell’occasione, la grafica di copertina era lievemente diversa, l’immagine di Milazzo spiccava su sfondo nero.
Finale indimenticabile. O’Hara implora il suo vescovo di fermare lo scontro sanguinoso che sta per compiersi, ma si lascia convincere dalle melliflue parole dell’ignobile prelato e accetta di farsi trasferire in una parrocchia di campagna. Nel corso della grande manifestazione, è la polizia a provocare i pacifici manifestanti, e nella confusione che ne deriva un killer uccide Winton.
Tristemente consapevole di ciò che sta per accadere, Ken Parker non può fare a meno di tornare dagli operai. Lo ascoltano, ma ai loro occhi non è più credibile. Decide ugualmente di far parte del corte.
La polizia a cavallo carica e spara, è una strage. Per salvare a vita a una ragazzina, Ken lancia il coltello contro un poliziotto, e lo uccide. Deve darsi alla fuga. Una pallottola lo ferisce alla schiena. Trova il tempo per salutare Kianceta (Belle): sa che non potrà rivedere Teddy per molto tempo. Ora deve far sparire le sue tracce.
I ragazzi di Donovan, cinquantanovesimo e ultimo albo della serie regolare, uscì nel maggio 1984, con le firme di Berardi, Mantero e Ambrosini.
In fuga, Ken Parker è braccato dalla polizia e dall’agenzia investigativa per la quale lavorava. I ragazzi di Donovan sono sette sbandati, che nella Boston dell’epoca cercano di cavarsela con elemosine, piccoli furti e truffe con destrezza. Vivono in una casa abbandonata, fatiscente e pericolosa: è lì che si nasconde Ken, il cui volto sta sulle prime pagine dei giornali con una taglia di 1.000 dollari offerta dalla National Agency, che vorrebbe ovviare al grave danno reputazionale. Ai giornali, Alec Browne affida la sua minaccia: “Lo inseguirò fino in capo al mondo, se necessario, e lo acciufferò!”. Ken è ferito, ha la febbre alta.
Ricapitolando: Ken Parker ha lasciato il West e, per stare vicino al figlio Teddy, si è trasferito sulla costa orientale. Le stesse qualità che gli erano servite per fare lo scout e sopravvivere negli ambienti più estremi, gli procurano un salario come investigatore privato. Ma la società urbana non gli è congeniale, preme sulla sua etica in modi sempre meno sopportabili. Ken è un individualista, non ha mai frequentato gli operai (dovrà fare a pugni per superare la loro diffidenza), non può avere una coscienza di classe, ma il suo intuito è infallibile nel valutare le ingiustizie. Alla fine di Sciopero, la sua vita subirà una delle torsioni più profonde.
Lo vediamo sotto la pioggia, in coda per farsi assumere nella più grande fabbrica tessile di Boston, la Textile Mill. Un dollaro per 14 ore di lavoro; il contratto comprende una clausola, l’impegno a non iscriversi a un sindacato. Nei dialoghi, si fa cenno al massacro di Chicago del Primo Maggio 1886. Alla Textile Mill, Ken scopre la rivoluzione industriale, la macchina a vapore alimentata a carbone, la catena di montaggio. La vita in fabbrica è resa con segni grafici che lasciano intendere come il rumore sia così assordante da coprire le parole.
The Worker è un giornale indipendente, finanziato e diretto dall’incorruttibile Winton, nel mirino della polizia che sta sul libro-paga del magnate Jay Troust. Costui coltiva rose in una grande serra: capitalista spietato – vaga somiglianza con Gianni Agnelli -, muove gli uomini come pedine (compreso il suo unico figlio, a cui nega la relazione con una povera sarta, costruendo false prove di tradimento), fa donazioni benefiche alla parrocchia di padre O’Hara, ma intende far chiudere The Worker e si prepara ad abbassare i salari o, peggio, a delocalizzare lo stabilimento.
Modesty Blaise è un personaggio creato dal fumettista Peter O’Donnell e disegnato da Jim Holdaway. Doveva essere pubblicato dalDaily Express, ma la direzione del giornale rifiutò il fumetto, che fu accettato dall’Evening Standard, dove venne pubblicato a partire dal 13 maggio 1963 fino all’11 aprile 2001. Totale: 10.183 strisce giornaliere; sono state pubblicate in trentacinque paesi e su più di settanta quotidiani.
Nell’arco di trentotto anni, O’Donnell ha sceneggiato 95 storie, e scritto 13 romanzi, riprendendo personaggi e situazioni della saga a fumetti. Ai disegni, è rimasto Jim Holdaway fino alla morte, avvenuta nel 1970; lo sostituì lo spagnolo Enrique Badía Romero fino al 1979, poi John Burns e Pat Wright dal 1979 al 1980, Neville Colvin dal 1980 al 1986, e da allora fino all’ultima tavola – pubblicata nel 2001 – di nuovo Badía Romero.
Nato a Lewisham, vicino Londra, nel 1920, O’Donnell iniziò scrivendo libri per bambini, per poi approdare alle comic strip dopo la Seconda guerra mondiale, sceneggiando serie come Garth (1953-66). Nel 1965, pubblicò il romanzo Modesty Blaise, e l’anno dopo è uscito il film omonimo (in Italia con il sottotitolo “La bellissima che uccide”), con la regia di Joseph Losey e Monica Vitti nel ruolo della protagonista. In una scena di Pulp Fiction, John Travolta, seduto sul water, legge uno dei romanzi ispirati al personaggio. Continua a leggere →
Con il senno del poi, Il sicario – numero 57, agosto-settembre 1983 – si rivelerà il quarto e ultimo albo uscito nel 1983. Gli autori: Berardi, Mantero e Tarquinio (ultima presenza). Immagino che a questo punto la chiusura della serie fosse già stata decisa (fra copertina e contenuto, lo scarto è evidente), ma la certificazione arriverà mesi dopo.
L’omicidio politico ha costituito un tratto essenziale della storia degli Stati Uniti: non solo Lincoln e i Kennedy, si contano a decine gli attentati a personalità di rilevanza pubblica. Già il numero 4 di questa serie aveva romanzato l’omicidio di Ely Donehogawa, a Washington; stavolta, il plot comincia con l’arrivo a Boston di un sicario, biondo e con i baffetti, a cui un committente misterioso, elegante e con il monocolo, commissiona l’assassinio del senatore Barton Hole.
Il sicario si chiama Gus Stove, il committente è un avvocato, l’assassinio si compie poche tavole dopo, nel corso di una cerimonia nella quale il senatore Hole scopre un monumento commemorativo dei soldati morti nella Guerra Civile. Ma al momento di incassare il resto del suo compenso, il sicario viene trafitto da un coltello impugnato da Benson, il braccio destro del misterioso avvocato. Il corpo di Stove viene gettato nella baia. Sopravvive. Vuole pareggiare i conti. Ma Benson è già stato eliminato. E scopriamo che anche l’avvocato è solo un intermediario.
Ken scopre che la figlia di Olsen ha rapporti con un ex pregiudicato, lei lo ammette, ma sostiene che quell’uomo ha cambiato vita e certi sospetti possano rovinarlo. Ken conquista la fiducia di Robinson e i due procedono insieme; Ken comincia a frequentare l’ambiente delle corse ippiche e relative scommesse. Ma gira a vuoto. Vacilla. Va dal suo capo alla National, Alec Browne, e gli esprime i suoi timori: “Più passa il tempo e meno ci capisco. Comincio a credere di non essere tagliato per questo mestiere”. Il suggerimento di Browne è semplice: ricominciare tutto da capo.
È la tenacia a far arrivare Ken alla verità prima della polizia, in un’avventura un po’ piatta e poco coinvolgente. Non compaiono mai Theba (Teddy) e Belle McKeever, che sono poi i motivi per cui Ken ha deciso di fermarsi a Boston: ciò fa presumere che, al momento dell’assegnazione del lavoro, soprattutto quello del disegnatore, l’architettura degli episodi fosse ancora incerta, e servissero delle storie riempitivo.
In quarta di copertina, il primo “contatto” fra gli autori di Ken Parker e Luigi Bernardi, compianto artefice di una quantità di iniziative editoriali: si tratta della pubblicità al numero 11 della rivista Orient Express, sulla cui copertina comparve Marvin il detective, un nuovo personaggio di Berardi e Milazzo.
A proposito di gioielli e d’imbrogli è il titolo del numero 56, seconda avventura metropolitana di Ken Parker, calato nelle vesti dell’investigatore privato. Berardi, Mantero e Ambrosini gli autori: l’albo uscì nel giugno-luglio 1983, il prezzo di copertina era salito a 900 Lire.
Sui giornali sta scritto che il panfilo della duchessa Romanoff è in rada da un paio di giorni. La reputazione della duchessa è quella di un’amante dei gioielli, disposta a spendere qualsiasi cifra. Un gioielliere bostoniano cerca di intercettarne i desideri, mette in vetrina gli oggetti più preziosi e costosi: scopre che tutti i suoi concorrenti stanno facendo lo stesso. Quel gioielliere acquista un palco allo Star Theatre e fa sfoggiare alla moglie un magnifico collier: scopre che tutti i suoi concorrenti si sono comportati allo stesso modo… Ed è a teatro che la truffa si concretizza, facendo leva sulla sorda rivalità fra quei commercianti.
Febbraio-marzo 1983, il numero 54 porta, finalmente, Ken Parker a Boston, dopo un viaggio tormentato, pieno di imprevisti, interruzioni, ritardi, quasi che il protagonista fosse alla ricerca di scuse per rimandare i conti con il passato. Inevitabile che per un albo così atteso – Boston, appunto – si ricostituisca la coppia Berardi-Milazzo.
L’ultimo tratto del viaggio è in treno, partenza da Omaha, Nebraska. Incurante dei tempi storici, Berardi si diverte a portare nella trama cinque fra i più grandi detective della letteratura, Auguste Dupin (Poe), Sherlock Holmes (Conan Doyle), Philo Vance (S.S. Van Dine), Ellery Queen (Dannay e Lee) ed Hercule Poirot (Agatha Christie); pare che Nero Wolfe abbia rifiutato l’invito… La fisionomia di ognuno dei cinque detectives è restituita in modo magistrale da Ivo Milazzo, la caratterizzazione più incisiva mi pare quella di Philo Vance. Due terzi dell’albo si sviluppano sul treno, esplicito omaggio all’Assassinio sull’Orient Express. Viaggiano personaggi misteriosi, che si sentono in pericolo e adottano ogni precauzione. Per Ken, salire sul Transcontinental si rivela complicato: non volendo aspettare altri quattro giorni, si nasconde sotto un vagone, finché, correndo seri rischi, riesce a issarsi a bordo nella carrozza dei bagagli, dove sono collocati anche una bara e un gorilla.
Un grido nella notte. Un corpo cade dal treno proprio mentre sta passando sopra un ponte. Lo scompartimento del morto è chiuso dall’interno, solo il finestrino è aperto, ogni cosa appare buttata all’aria… Ha così inizio la detective story, con Dupin che spiega pazientemente al capotreno che la compagnia ferroviaria ha offerto loro quel viaggio “per meriti speciali acquisiti in qualità di criminologi professionisti”. Saranno loro, ovvio, a scoprire chi ha ucciso “il povero signor Collins”.
Ma le frettolose deduzioni di questi acclamati professionisti si rivelano errate, prevale la superbia di pensarsi unici depositari del metodo per risolvere il classico “delitto nella stanza chiusa”. Anziché questi insigni detectives, sarà Ken a decifrare l’enigma.
Grazie a certe erbe trovate da Ken, il figlio di Naika si riprende dalla febbre e confida a Thelma di chiamarsi Billy. In questa classica storia di inseguimenti e scontri cruenti, non particolarmente originale, Billy dovrà scegliere a chi dedicare la sua fedeltà più profonda. Il finale rientra nei canoni, molto americani, della “second chance”, la seconda possibilità offerta a chi ha patito tante sofferenze e saprà come ringraziare il destino.
Il 1982 di Ken Parker finisce con l’albo 53: I pionieri, testo e sceneggiatura di Berardi, disegni di Trevisan.
Quattro pagine mute, per cominciare: avanzando faticosamente nel pieno di una tempesta di sabbia, Ken incrocia un uomo svenuto e lo carica sul suo cavallo. Quell’uomo si chiama Harvey, è ancora sfinito quando Ken arriva al suo piccolo ranch, dove lo aspetta la moglie in pena. I coniugi Andrews hanno due figli, il più piccolo è malato, febbricitante. Anche la donna appare sfinita, prosciugata di ogni energia.
Un anno prima, gli Andrews si erano trasferiti dal Missouri al Kansas. È andato tutto storto: il bestiame morto, il raccolto perduto. Forse non sono stati abbastanza previdenti, certo la sfortuna si è accanita su di loro. Nella sella, Ken tiene un po’ di chinino e qualcosa da mangiare.
Vistosamente demoralizzata, al limite della depressione, Sarah Andrews sostiene che quella è “una terra maledetta”, li vuole tutti morti. Jeff, il bambino più grande, è subito infatuato di Ken, lo ascolta a bocca aperta per tutte le cose che sa (per esempio, quali nuvole portano la pioggia).
Prossima fermata: Stockton: numero 51, settembre-ottobre 1982, è opera di Berardi, Mantero e Polese.
Sulla diligenza Wells Fargo & Co Overland viaggiano Ken Parker, una bionda e formosa cantante, un distinto rappresentante di tessuti e un ometto basso che commercia in farmaci. Miss Violette Fauvel, la bionda, civetta un po’ con Ken, che si dice civilizzato a metà (“è la vostra metà sauvage che mi incuriosisce”); si finge parigina, ma il suo accento del Kansas non può sfuggire al nostro eroe.
Nessuno si aspetta l’accoglienza di Ken a Stockton: un autentico trionfo, pare chiaro che l’abbiano scambiato per un altro, ma il nome corrisponde e Ken viene omaggiato con un lauto pranzo, un abito su misura e persino le cure di un dentista.
Poi arrivano quattro brutti ceffi, “uomini di Burden”, così definiti dalla folla: circondano Ken, lo sfidano, pretendono un duello alla pistola, il nostro rifiuta. Diventa chiaro che non è lui l’uomo che la cittadinanza stava aspettando, dopo aver inviato un ricco assegno, affinché venisse a garantire la legalità… “Avrei dovuto immaginarlo. Per una volta non ho saputo resistere all’idea di approfittare della situazione”, dice Ken a Violette.
Per il cinquantesimo episodio (agosto 1982), la scelta fu inedita: Storie di soldati resterà un unicum in questa saga; si tratta di una raccolta di storie brevi, tratte dai racconti di Ambrose Bierce, riadattati e sceneggiati da Berardi. Ai disegni si alternano Milazzo, Polese, Trevisan e Ambrosini. Il risultato è notevole.
Nato nel 1842 (un paio d’anni prima di Ken), Ambrose Bierce fu scrittore e giornalista; lavorò per il News Letter di San Francisco e per l’Examiner di William Randolph Hearst, celebre magnate dell’editoria. Sono i suoi racconti brevi – in gran parte ambientati in tempo di guerra – ad aver attirato l’attenzione di Berardi. Sotto al titolo Storie di soldati, nel 1976 Einaudi ne raccolse quindici, tradotti da Antonio Meo, e comprendono i quattro qui trasformati in narrativa disegnata. Forse il successo del fumetto ha dato fiato alle vendite del libro.
Essendo pressoché coetanei, è plausibile che nel 1878 i percorsi di Ken Parker e di Ambrose Bierce possano incrociarsi. Incontro casuale: fa da pretesto un daino che entrambi sono sicuri di aver ucciso con un colpo di fucile. In effetti, il daino presenta una sola ferita alla base della nuca: Ken e Ambrose si azzuffano, nessuno dei due prevale, saggezza e stanchezza li spingono a dividere il daino in una cena comune. Mai come in questa occasione, il ruolo di Ken è quello della spalla, come fosse candidato all’Oscar per l’attore non protagonista. Ambrose Bierce ci viene mostrato come un tipo eloquente, con tendenze alla logorrea (Ken non riesce a raccontare una sua storia, è sempre l’altro a imporsi). Bivaccando intorno al fuoco, Bierce snocciola trame verosimili, artisticamente contraffatte per conquistare l’attenzione del lettore.
Di Ivo Milazzo, il prologo e le tavole di congiunzione fra le singole storie, oltre al racconto finale.
Rientrati al campo, Ken e i suoi tre compari cominciano a costruire un recinto. Il più giovane, Sid, si mostra violentemente razzista nei confronti dei pellerossa, che gli hanno ucciso il nonno e un fratello; faticosamente, Ken cerca di farlo ragionare: “Tu li definisci pionieri, ma dal punto di vista degli indiani erano invasori”. Da autodidatta, Ken si dice convinto che l’istruzione e la cultura siano gli unici antidoti alla violenza e alla prevaricazione: “più sai e meno riescono a fregarti. In realtà, poi ti fregano lo stesso. Ma almeno sei in grado di accorgertene” (ogni tanto, Berardi propone haiku come questo).
Con il cannocchiale, Ken vede lo splendido stallone nero, che aveva pensato fosse leggendario. Lavorando insieme, il gruppo di Ken sviluppa rapporti di amicizia. Nel frattempo, Otomi va dallo stregone e si sottopone a un rito di iniziazione.
Inaspettata, si presenta al campo Betsy, la fidanzata di cui Sid ha parlato spesso. Scoprendosi incinta, Betsy ha lasciato la sua famiglia e Sid si dimostra felicissimo (nel frattempo, il lettore avrà capito che questo ragazzo biondo non è affatto razzista, ma solo ingenuo e credulone)… Tanto ingenuo, no: Sid l’aveva già capito prima che Betsy gli confessasse che il figlio non è suo. A Sid non importa, prima di incontrarla “ero uno sbandato, tu hai dato un senso alla mia vita”.
Proprio quando Ken e i compagni riescono a catturare lo stallone nero, Otomi ha una visione: sarà lui il primo a cavalcare quel magnifico cavallo. Ken e gli altri hanno deciso di regalare lo stallone a Sid e Betsy, come “regalo di nozze”, ma Otomi se ne impossessa e accidentalmente provoca una tragedia.
Iniziato con i fuochi d’artificio – Adah e, prima, La donna di Cochito – il 1982 prosegue con un episodio in tono minore – La verità – ma di inusuale amarezza: questo numero 47 è sceneggiato da Mantero e disegnato da Marraffa.
Il prologo mostra due cercatori d’oro intorno a un fuoco notturno, un rumore, uno sparo, un grido… A Bitter Creek, New Mexico, arriva Ken portando un cadavere sul dorso di un cavallo. Immediatamente, si diffonde la voce che siano stati i Navajo.
Arthur Comb è il nome dello sceriffo. Giovane, determinato, sposato da quattro mesi con la figlia di Noel Tavernier, l’uomo più potente della cittadina, Arthur Comb non si accontenta della vox populi, nonostante più d’uno soffi sul fuoco di un’immediata giustizia sommaria.
Il morto si chiama Wendell, il sopravvissuto Thalberg. Gravemente ferito, costui racconta che insieme al socio, dopo aver raccolto un bel po’ d’oro, si erano imbattuti in una piccola banda di pellerossa, che avevano ucciso alcuni pastori messicani e, sceso il buio, li avevano attaccati. Allo sceriffo, questa ricostruzione non convince, “l’accaduto può essere spiegato anche in un altro modo”. Forse Thalberg ha ucciso Wendell per non spartire l’oro… Comb vorrebbe ritrovare quei pastori messicani, manda un suo vice a cercarli.
Stan Lee e Jack Kirby crearono i Vendicatori nel 1963. Per lo storico traguardo del numero 500 della serie regolare, Joe Quesada (editor in chief della Marvel) costruì una nuova coppia creativa, coinvolgendo un grande sceneggiatore e un grande disegnatore che, a partire da Avengers Disassembled dovevano chiudere un’epoca e aprirne una nuova. Ai disegni del numero 500 collaborarono tanti altri nomi della “Casa delle Idee”: Oliver Coipel, Alex Maleev, Steve Epting, Lee Weeks, Michael Gaydos, Mike Mayhew, David Mack, Gary Frank, Jim Cheung, Steve McNiven e George Perez…
Inizia con la fragorosa violazione del perimetro della base dei Vendicatori a New York City. Tornato dalla tomba, il Fante di Cuori (Jack Hart) fa breccia nel muro di cinta. Il secondo Ant-Man (Scott Lang) va incontro al compagno creduto morto, ma il Fante di Cuori, avverando il suo più grande timore, esplode, distruggendo la base dei Vendicatori. Nell’esplosione muore Scott Lang. Viene lanciato il Codice Bianco (massimo livello di emergenza)…
Nel frattempo, Tony Stark (Iron Man), che veste i panni di segretario della Difesa degli Stati Uniti, sta tenendo un discorso di fronte alle Nazioni Unite: inaspettatamente, come se fosse ubriaco, Stark attacca il delegato della Latveria. Henry Pym (il Calabrone), che gli siede accanto, e Pantera Nera (delegato del Wakanda) provano inutilmente a placarlo…
La trama diventa concitata, stracolma di esplosioni e di morti, come in un film catastrofico degli anni Settanta, con una cupissima gamma cromatica delle tavole. Gli Avengers si trovano sotto attacco simultaneo di vari nemici (cinque Ultron, gli alieni Kree), il gruppo va sgretolandosi: dopo Ant-Man, muoiono anche Visione e Occhio di Falco (Clint Barton), mentre Wasp e Capitan Bretagna finiscono in coma.
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