Marvels. L’Era degli Eroi

Alla fine degli anni Trenta, un giovane fotografo, Phil Sheldon, assiste alla nascita della nuova era, quella delle “meraviglie”. Entrano in scena i supereroi, personaggi dotati di enormi poteri, suscitando fascino e paura nella folla che assiste alle loro imprese.

Sheldon è uno spettatore come noi. Questo rovesciamento del punto di vista, alla base della sceneggiatura di Kurt Busiek – intrisa di cultura fumettistica, per intrufolarsi dentro tante storie già raccontate, e raccontarle di nuovo – richiede uno stile grafico di inusuale potenza: Alex Ross assolve perfettamente a questo compito, con un iperrealismo abbagliante, che ricorda la pittura di Norman Rockwell.

Capitan America, Namor e Nick Fury attraversano l’intero arco temporale di Marvels. Ma l’Era delle Meraviglie ebbe inizio nel 1939 con l’apparizione dell’uomo sintetico conosciuto come la prima Torcia Umana. I newyorkesi non vogliono credere a quello che vedono, qualcuno pensa sia uno scherzo di Orson Welles. È la guerra a cambiare ogni percezione: i mostri diventano eroi, la gente li ama. Con un coraggio che sconfina nell’incoscienza, Sheldon cerca di documentare i combattimenti, perde un occhio durante una battaglia fra Namor e la Torcia.

Il secondo capitolo porta il fotografo nei primi anni Sessanta, quando riappare Capitan America, agiscono i supergruppi (Vendicatori e Fantastici Quattro), e comincia a intravedersi “il lato oscuro delle meraviglie”: i mutanti, gli X-Men. Tutti, anche Sheldon, ne hanno paura; finché, davanti a una spaventata bambina dagli occhi enormi, il fotografo ricorda le immagini dei fuoriusciti da Auschwitz, e cambia idea sui mutanti.

Il terzo capitolo è incentrato sull’arrivo di Galactus e Silver Surfer. Il pianeta è a un passo dalla distruzione, ma dopo la salvezza ecco i dubbi sul senso di quanto è accaduto: i pregiudizi contro i supereroi riemergono ogni volta. A Sheldon diventa chiaro che il sentimento che l’umanità deve provare verso “le meraviglie” è la riconoscenza.

Nell’episodio successivo, l’ottica di Busiek diventa esplicita, ed è Sheldon a chiarirla: “Non avevamo fiducia, questo era il nostro problema. Non ci fidavamo delle meraviglie… I Fantastici Quattro o i Vendicatori risolveranno tutto, e una volta che ci avranno salvati torneremo a dargli addosso”. Decide di scagionare l’Uomo Ragno dall’accusa di aver ucciso George Stacy. Conosce Gwen, e la coppia di autori osa l’inosabile, riscrivendo la memorabile battaglia fra l’Uomo Ragno e Goblin in cui Gwen venne uccisa. La più innocente delle vittime. Ormai Sheldon è troppo stanco per continuare…

Una delle saghe più giustamente celebrate degli anni Novanta.

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Ogni 5 novembre rileggersi “V for Vendetta”, di Alan Moore e David Lloyd

Londra, 5 novembre 1997: dopo la guerra nucleare, l’Inghilterra è nelle mani di una feroce dittatura, di chiara impronta fascista.
Varie polizie (Dito, Naso, Bocca, Orecchio e Occhio) rispondono direttamente al Leader; il Fato (radio-tv) indottrina il popolo con la propaganda.

Il Dito ha la “prerogativa” di stabilire direttamente la pena per chi viene arrestato.
Un giustiziere mascherato – con una maschera teatrale, un “eterno sorriso” – salva una sedicenne che, per fame, stava per prostituirsi ed è stata arrestata dal Dito. Fa esplodere il parlamento-fantoccio di Westminster e con i fuochi d’artificio disegna nel cielo una V gigantesca.
V porta Evey nel suo teatro-nascondiglio, dove coltiva rose e conserva libri e dischi proibiti: “Alcune culture sono state sradicate più metodicamente di altre”.

V rapisce la “Voce del Fato”, il miglior annunciatore della Bocca. Lo fa impazzire. Chi sia V è fatto intuire con un accenno alla cella numero 5 (V, in numeri romani) del campo di concentramento di Latskill, che la Voce del Fato dirigeva qualche anno prima. A Latskill erano concentrate tutte le minoranze non ariane.

Un altro pilastro del regime, il Vescovo pedofilo, violentatore di bambine, viene giustiziato da V con un’ostia avvelenata; Evey, inconsapevole, ha fatto da esca; d’ora in poi rifiuta di essere complice di omicidi. Continua a leggere

Donne di frontiera, di Paolo Eleuteri Serpieri e Raffaele Ambrosio

In copertina, un tipico esemplare femminile secondo i canoni di Eleuteri Serpieri: una procace donna bionda con il seno scoperto, viene presa con la forza da un uomo bianco, mentre un pellerossa osserva da lontano (L’Isola Trovata, 1979).

Eleuteri Serpieri - Donne di frontieraWest, fine Ottocento: pionieri e avventurieri hanno colonizzato nuove aree, ma mancano le donne. Come i Romani con il ratto delle Sabine… Perciò una compagnia, scrive Ambrosio, è stata “incaricata di reclutare delle giovani che abbiano il gusto dell’avventura e spirito di adattamento, per trasferirsi lassù e diventare le compagne di quei coraggiosi”.

Un gruppo di ragazze illibate e una mandria di bovini sono in marcia verso gli stessi luoghi, i cow-boys vigilano su entrambi i gruppi.

Quando una ragazza che fa il bagno viene violentata da un cow-boy al seguito della mandria, i due uomini che guidano le donne vorrebbero abbandonarla. Le altre donne si oppongono, e una di loro uccide i due uomini. Ora sono sole. Vogliono vendicare l’amica. La storia finisce con una didascalia femminista: “il carro si allontana veloce. A Raton, New Mexico, non arriverà mai nessun tipo di carne”.

La seconda storia è ambientata sulle montagne del Wyoming: un trapper capisce di essere spiato da un pellerossa, e scopre trattarsi di una donna bianca, che vive in una grotta. John e Mary sono due tipi selvatici, con una serie di lutti alle spalle, ormai incapaci di vivere in città. Con due flashback, gli autori ne riepilogano la storia, e dopo un breve combattimento finiranno per ripartire insieme…

Up il sovversivo, Alfredo #Chiappori

Sempre a testa in giù, appoggiato coi piedi sulla linea superiore della vignetta, Up fu uno dei primi personaggi – apparve nel 1969 – che proposero una satira politica di sinistra.

Con un segno essenziale, privo di fondali, sintetizzando in ogni vignetta il rovesciamento del punto di vista dei giovani rispetto alle generazioni precedenti, Up incrocia i morti nelle piazze, la conquista della Luna, il colpo di stato in Grecia, la rivoluzione femminista…

L’autorità costituita – solitamente in divisa – non fa che intimare divieti. Per esempio: “È proibito violare la legge di gravità”. Ecco la colpa di Giuseppe Pinelli.

Il protagonista osserva e commenta i fenomeni da un’ottica capovolta, di per sé sovversiva, non accettando la naturalità delle leggi che regolano il sistema. “Il sistema”, peraltro, cerca di spaventarlo – sono frequenti le presenze militaresche e i manganelli – o recuperarlo attraverso allettamenti consumistici, tentazioni di cui si fa ambasciatrice una donna, Elisabetta.

Non manca la critica rivolta al proprio mondo di riferimento:
“ – I burocrati sono nemici della rivoluzione!
– E tu chi ti credi di essere per parlare in questo modo?
– Un rivoluzionario!
– Fammi vedere la tessera!”.

Alfredo Chiappori, Up il sovversivo, Feltrinelli, 1970

Necron (1), Magnus e Ilaria Volpe, 1981

La fabbricante di mostri è il titolo della prima avventura di Necron, realizzata da Magnus nel 1980 ma uscita in edicola solo nel gennaio ‘81, nel classico formato pocket della Edifumetto di Renzo Barbieri.

I tascabili per adulti fecero la fortuna di Barbieri (1940-2007). In questo caso, l’idea di partenza era dello stesso editore, ma le sceneggiature erano della milanese Mirca Anna Martini (1942-1998), che preferiva firmarsi Ilaria Volpe.

Magnus - NecronIn una Berlino Ovest che funziona da puro pretesto narrativo, Frieda Boher lavora presso il Centro Ricerche Istologiche. Biologa tanto geniale quanto crudele, Frieda è necrofila, riesce a eccitarsi sessualmente solo con i morti: perciò decide di costruirsi una sua creatura “alla Frankenstein”, trafugando pezzi di cadaveri e assemblando Necron, mostro meccanico superdotato, dalla forza sovrumana e dall’instancabile appetito sessuale. Caratteristiche di Necron sono, altresì, il temperamento infantile, che mal si concilia con costante bisogno di carne cruda, e l’incontenibile gelosia verso Frieda.

Sesso e comicità, horror e sadismo, grottesco e fantascienza: ecco gli ingredienti di base. Con Necron, Magnus comincia ad adottare lo stile della ligne claire. Stile funzionale all’obiettivo: sdrammatizzare questa accozzaglia di efferatezze, mutilazioni e crimini. Sarebbe un fumetto orripilante se non fosse infarcito di un’ironia che lo spinge all’iperrealismo. Fra i riferimenti grafici, il Ranxerox di Liberatore e il Conan di John Buscema. Con il passare del tempo, Necron piega verso il mood di Rocky Horror Picture Show. E poi, l’autoironia: il cervello di Necron – ci dice Frieda – “apparteneva a un individuo sottosviluppato, uno scrittore di fumetti dell’orrore… In realtà avrei preferito un disegnatore, ma va bene lo stesso”.

Corti capelli neri, dominatrice, prosperosa, rotondetta, non proprio longilinea (non rinuncia mai ai tacchi alti), dallo sguardo di ghiaccio e dalla lingerie fetish, Frieda costruisce Necron per sfogare le sue voglie, ma è altresì mossa da un incontenibile desiderio di ricchezza e potere. Usa la frusta e le catene, minaccia di staccargli gli elettrodi, è felicemente sorpresa dalla scoperta che il suo mostro evolve, mostrando barlumi di coscienza. Alla potenza sessuale, corrispondono una forza fisica disumana e una totale assenza di pietà.

La fabbricante di mostri doveva essere una storia autoconclusiva, che si concludeva con la morte di Frieda e del suo mostro. Invece, diverrà la prima di 14 episodi. (1 di 2, segue)

Magnus, su queste pagine

Criminal. Codardo – Ed Brubaker e Sean Phillips, 2007

Leopold “Leo” Patterson è un outsider, fuorilegge figlio di fuorilegge. Borseggiatore dall’età di otto anni, è divenuto un ladro abilissimo, imparando dal padre alcune regole non scritte che servono a sopravvivere: “Io non lavoro con gente che usa le pallottole prima del cervello”.

Dal padre ha imparato che ogni colpo va pianificato nei minimi particolari, a partire dalla via di fuga se le cose dovessero prendere una brutta piega. Quella che per lui è prudenza, altri la scambiano per vigliaccheria.

Cinque anni dopo l’ultimo colpo andato male, Leo se la cava con piccoli furti, quando viene pedinato e fermato da Seymour, un ex complice che ora se la fa con un poliziotto corrotto. Vogliono coinvolgerlo in un colpo. Non accetteranno un no come risposta…

Crime story di impianto classico, fatta di poliziotti corrotti, amori senza scampo, torture fisiche e psicologiche, vite sprecate in cerca di una redenzione.

Non c’è un grammo di glamour, il ritmo lascia senza respiro, l’estrema sgradevolezza dei nemici spinge irresistibilmente a immedesimarsi nel “codardo”.

È un mondo corrotto, una guerra di tutti contro tutti, senza vincitori. Solo sopravvissuti.

Luke Cage, 1972, Archie Goodwin e George Tuska

Giugno 1972: Archie Goodwin e George Tuska, con gli inchiostri di Billy Graham presentano il primo supereroe afroamericano: la prima apparizione è in Hero for Hire n. 1; in Italia arriva pochi mesi dopo, nel luglio ’73, sul numero 7 de Gli Albi dei Supereroi.

Ipermuscolato, vestito con una fiammante camicia gialla aperta sul petto, una catena come cintura, Luke ha forza e resistenza sovrumane, una pelle impenetrabile e un’etica discutibile; la prima storia ha per titolo “Un eroe a pagamento”.

luke_cage-copSi chiamava Lucas, da Harlem, e ha alle spalle un’ordinaria storia di violenza; la sua donna è stata assassinata, il migliore amico l’ha tradito. È stato rinchiuso in un carcere da cui nessuno è mai riuscito a fuggire.

Orgoglioso e intransigente, Lucas non accetta di diventare l’informatore dell’odioso capitano delle guardie, viene selvaggiamente punito e solo l’arrivo del nuovo direttore – una specie di Brubaker – gli salva la vita.
Lucas viene coinvolto in un esperimento scientifico che sta all’incrocio fra quelli che trasformarono Steve Rogers in Capitan America, e non piegarono l’Alex di Arancia meccanica (ma il punto di riferimento resta il mostro creato dal barone Frankenstein).

Di per sé molto pericoloso, l’esperimento viene deviato dall’intervento dell’aguzzino di Lucas. Trasformato, il nero scopre di poter abbattere i muri con i pugni e di sopravvivere ai colpi di pistola. Viene creduto morto. Ha in mente solo la vendetta, ma il suo ex amico si è intanto trasformato in un killer lanciatore di coltelli, Diamond Back, simile a un cobra.

In La vendetta è mia, Luke comincia a incassare le piccole taglie messe a disposizione da negozianti taglieggiati. Rientra in scena il medico dell’esperimento in carcere, e pone in dubbio l’uso che Luke fa dei suoi poteri. La replica: “La gente paga le guardie di sicurezza, gli investigatori privati. Perché non dovrebbe pagare uno come me?”.

Gli Inumani, 1965, Stan Lee, Jack Kirby e Joe Sinnott

La prima apparizione degli Inumani (Inhumans) avviene nel dicembre 1965 sul numero 45 di Fantastic Four della Marvel Comics, su testi di Stan Lee e disegni di Jack Kirby, inchiostrati da Joe Sinnott.

Gli Inumani di Kirby 1965

Mesi prima, sul numero 36, era già apparsa Medusa, rimasta senza memoria e reclutata nei Terribili Quattro: riavutasi dall’amnesia, contribuì alla sconfitta del supergruppo criminale e andò in cerca della sua famiglia perduta. Anni dopo sarà Triton il primo Inumano a vedere New York City, dove scoprirà che “gli uomini vogliono distruggere quello che non capiscono”.

Gli Inumani sono una razza geneticamente superiore. La loro patria, la città di Attilan, venne citata dal giovane Kirby già nel 1941 in Tuk the Caveboy, incluso in Captain America Comics n. 1.

La razza degli Inumani nasce sulla Terra da una sperimentazione genetica effettuata dagli extraterrestri Kree con un duplice scopo: trovare una soluzione alla loro stagnazione genetica, e creare una razza dai grandi poteri da usare come arma contro gli odiati Skrull. Per motivi mai chiariti, i Kree abbandonarono le creature al proprio destino. Resi molto più evoluti dell’homo sapiens, gli Inumani si organizzarono in una società isolata – Attilan – che sviluppò una tecnologia avanzatissima. Uno scienziato scoprì che l’esposizione alla sostanza chiamata “nebbie terrigene” era in grado di attivare il potenziale mutageno del genoma inumano, trasformandoli in individui con poteri e caratteristiche particolari: da allora, gli Inumani hanno iniziato a praticare la “Terrigenesi”, una sorta di rito religioso a cui si sottopongono raggiunta la maturità. L’esito della mutazione è imprevedibile, tutti gli esponenti della razza Inumana sono diversi fra loro.

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Una criminologa con il volto di Audrey (scritto 24 anni fa)

Assomiglia a Audrey Hepburn, nella versione di Vacanze romane, e già questo è un punto a favore. Adesso che le eroine dei fumetti, sempre più numerose, sono sempre più formose (una via di mezzo fra top model e body building), vedere il fascino fragile di Julia fa un certo effetto. E predispone alla simpatia.

Julia 1

Il personaggio, pubblicato da Bonelli nel formato di Tex e Dylan Dog, merita altri apprezzamenti: rientra nel genere poliziesco, con venature horror, ma lo rinnova in profondità, passando per le mani di un grande sceneggiatore, Giancarlo Berardi, l’inventore di Ken Parker, pietra miliare del fumetto italiano. Manca Ivo Milazzo, il suo partner storico, e si vede; i disegni, affidati a una squadra di giovani, non sono all’altezza della storia, ma per una produzione seriale, a periodicità mensile, il livello è più che discreto.

Berardi usava il western per criticare l’ideologia dominante, quella dei pionieri che spostavano la frontiera, l’accumulazione originaria fondata sui fuorilegge e su coloro che approfittarono dei delitti per farsi capitalisti. Dalle pianure del Montana, Lungo Fucile era arrivato alle città dell’est, per fare l’investigatore privato (…) Quando prende coscienza, decide di stare dalla parte dei più deboli (gli operai, dopo i pellerossa). E finisce sbattuto in carcere.

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Con un salto di cento anni, Berardi abbandona il western, ma non le psicologie. Anzi, scegliendo una criminologa, può consentirsi di scavare in profondità nel malessere del nostro tempo, dentro un’ambientazione urbana (Garden City) scura e deprimente. Julia Kendall, docente universitaria, agisce come consulente della polizia, sulle tracce di un serial killer. Lei sa seguire le tracce con lo stesso fiuto del suo precursore a cavallo. Sul suo diario quotidiano, forse un po’ troppo insistito, Julia scrive: “Per la polizia, un assassino è sempre e solo un colpevole. Al criminologo, invece, interessa anche quanto è stato vittima a sua volta. La violenza è sempre frutto di altra violenza”.
Una frase così, avrebbe potuto dirla il vecchio Ken. Anche Julia, inevitabilmente, avrà problemi col potere.

da Zero in condotta n. 69, 1998

Oltre il tempo, di Héctor Oesterheld e Alberto Breccia, 1969

Due racconti usciti nel 1969 e pubblicati una decina di anni dopo da “L’Isola trovata”.
Nel primo (“La goccia”) compare Sherlock Time, detective specializzato nel risolvere i misteri spazio-temporali.
Sherlock Time scopre che una vecchia villa, apparentemente abbandonata, è la trappola attraverso cui una civiltà aliena si procura corpi umani, spediti nello spazio da un razzo con le sembianze di una torre.

Nel secondo, Oesterheld racconta, in breve, le prime vicende dell’Eternauta; Juan Salvo (anziché Galvez) e Favalli (anziché Ferri); per il resto, personaggi e situazioni sono molto simili a quelli della grande saga.

Il sublime bianco e nero di Breccia rende più drammatica la morte dei vicini di casa, i Ramirez, vista dalla finestra, senza poterla impedire. Il disegnatore accentua il lavoro sulle rughe, che segnano e sfigurano i volti. Soluzione grafica assai efficace, la tuta impermeabile finisce con una maschera antigas della Prima guerra mondiale.

Oesterheld agisce sulla trama sostituendo il ragazzo, Pablo, con una ragazza, Susanna, il cui arrivo sconvolge i due amici (Favalli e Lucas): “L’ho letto da qualche parte, sì, ne La morte a Venezia di Mann. Nelle guerre, nelle pestilenze, nelle grandi calamità naturali l’istinto genetico si esaspera, cadono le barriere morali: è la specie minacciata che cerca di perpetuarsi a ogni costo”.

Gli invasori alieni hanno scelto il Sudamerica perché è debole, e si sono accordati con le Grandi Potenze, USA e URSS, che non muoveranno un dito.
La storia si chiude chiedendosi se quelle sinistre fantasie non stiano per accadere.

Héctor German Oesterheld scomparve il 21 aprile 1977, prelevato da uno squadrone paramilitare. Desaparecido, fu fra le migliaia di persone uccise negli anni della dittatura argentina.

Wile E. Coyote (1949) e Ralph Wolf (1953): scopri la differenza

Wile E. Coyote vs Ralph Wolf

Creazioni di Chuck Jones e Michael Maltese, dal punto di vista grafico i due personaggi quasi si confondono. Agiscono in due mondi diversi, variazioni sul tema di Sisifo.

Wile E. Coyote non fa che inseguire Beep Beep negli assolati deserti del far west, inventando complicatissime trappole che ogni volta gli si ritorcono contro.

Ralph Wolf, invece, ogni giorno timbra il cartellino per andare a caccia di pecore, ma deve vedersela con l’assonato, implacabile cane pastore, Sam Sheepdog.

Devil. Diavolo Custode, di Kevin Smith e Joe Quesada

Guardian Devil è il ciclo di 8 storie – uscite fra il 1998 e ’99 – che apre la seconda vita del Diavolo Rosso e segna una pietra miliare nell’evoluzione del personaggio. Su testi di Kevin Smith (il regista di Clerks) e con i disegni di Quesada, questa saga cala Devil in un’atmosfera angosciante, intrisa di riferimenti religiosi: fede, caduta, dannazione, perdita, salvezza…

Guardian Devil - Joe QuesadaIl Devil di Smith estremizza aspetti caratteriali della sua lunga storia, e lo fa capire al lettore attraverso alcune “voci fuori campo” (i pensieri di Matt Murdock, innanzitutto).

La sceneggiatura è di alta qualità, con notevoli squarci di realismo; un solo esempio: l’avvocato Murdock ha appena rappresentato il municipio di New York nel sottoscrivere un’assicurazione da un miliardo di dollari all’anno “contro i danni procurati dai superesseri”. Quanto a Quesada, il ritmo delle sue tavole è pirotecnico, ma non apprezzo certi barocchismi e la propensione al grottesco (le lenti colorate degli occhiali da cieco sono davvero pessime).

Comincia con una lettera di Karen a Matt: lei sa che lui è sempre stato “in grado di perdonare” ma non di dimenticare, perciò ha deciso di andarsene, destinazione Los Angeles.

A New York, nasce un bambino ogni 8 minuti, nei 5 distretti ci sono 218 ospedali. Da uno di questi sta fuggendo la sedicenne Gwyneth, che ha partorito un bambino e visto uccidere madre e padre. Gwyneth si presenta allo studio legale Sharpe, Nelson & Murdock: dice di essere vergine, è stata inseminata a sua insaputa. Matt Murdock pensa: “Liquiderei la cosa come il frutto dell’immaginazione di una ragazzina che ha visto troppi episodi di X-Files. Ma il suo polso non ha mai subito variazioni per tutto il tempo in cui ha parlato. Dice la verità. O almeno è convinta di farlo”. I colpi di scena sono appena cominciati: Gwyneth sa che lui è Devil. Glielo ha detto un angelo… L’angelo le ha anche detto che Devil avrebbe protetto il bambino. Che Gwyneth affida a Murdock. Continua a leggere

Devil. Parti di un buco, Mack e Quesada, 2001

Dopo l’attacco di Mysterio e l’omicidio di Karen Page da parte di Bullseye, fra il dicembre 1999 e l’aprile 2001 uscì Parts of a Hole, saga in sei parti: 144 tavole scritte da David Mack, disegnate da Joe Quesada, con le chine di Jimmy Palmiotti, colorate da Richard Isanove.

Quesada è un maestro nella costruzione della tavola, varietà e dinamismo sono i suoi segni distintivi, ma non mi piacciono molto i suoi volti, i lineamenti eccessivi, la tendenza alla caricatura. Trovo fantastiche le copertine di Mack, a livello dei migliori dipinti di Sienkiewicz; come scrittore, l’autore di “Kabuki” mostra di saper attingere a vari registri, confezionando una trama superoistica tutta giocata sulle sensazioni, le percezioni, i fluidi corporei…

Daredevil di David Mack

Matt sta suonando il pianoforte quando riceve la visita di Natasha Romanov, la Vedova Nera (nonché ex fidanzata): è preoccupata per lui, sa che è ancora sconvolto dalla morte di Karen, e lui ammette: “Credevo di aver superato la cosa… ma poi capro un vecchio odore… Il legno del pavimento scricchiola quando tira il vento… E mi aspetto quasi di vederla entrare”.

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Kit Carson, di Salinas, D’Antonio, Tarquinio e Alberto Breccia

Kit Carson, “l’indiano bianco” proposto da Rino Albertarelli nel 1937, avviò la tradizione degli eroi della Frontiera nati in Italia. Kit Carson - cop

Questo volume – Vallecchi, 1978 – raccoglie quattro storie realizzate da autori che presero il testimone da Albertarelli, 92 tavole a colori per avventure ambientate nella prima metà dell’Ottocento, segnate da un’ingenuità manichea: buoni e cattivi sono privi di sfumature, con più di una suggestione lombrosiana. Il lieto fine, con il ripristino della legalità e la punizione dei colpevoli, è pressoché sicuro.

Sia fra i bianchi che fra i pellerossa ci sono brave e cattive persone. Nell’esercito hanno trovato rifugio anche dei fuorilegge, che al momento giusto si riveleranno inaffidabili. Fra i pellerossa, si fronteggiano due partiti: il primo è composto da persone pacifiche e dialoganti, il cui principale attributo è la “saggezza”; gli altri hanno solo voglia di scendere “sul sentiero di guerra”.

Carson opera affinché bianchi e pellerossa convivano in pace. È rispettato dalle tribù indigene, spesso ne condivide le ragioni, soprattutto quando si tratta di contrastare l’avidità e i pregiudizi diffusi fra i bianchi. Oltre che coraggioso, conosce le tattiche dei pellerossa, intuisce i comportamenti dei banditi, spara con precisione, fa a pugni e combatte corpo a corpo, attraversando le praterie su Tuono, il suo magnifico stallone. “Per il tuono” è l’imprecazione preferita dell’eroe.

L’identikit grafico di Kit Carson è nitido: lunghi capelli biondi, fazzoletto rosso al collo, spesso porta i guanti e stivali alla coscia.

Farewell my Lenin, di Daniele Panebarco

Prefazione di Ferdinando Adornato (come cambiano i tempi), per questo albo fuori commercio, riservato agli abbonati del settimanale della Fgci, La Città futura.
Panebarco ha coagulato uno stile fondato sul cocktail linguistico: qualche goccia di marxismo-leninismo innestato su larghe dosi di letteratura e cinema hard boiled, con una spruzzata di comicità.

Il protagonista è Big Sleeping, un investigatore privato che sbarca il lunario grazie ai contratti che gli passa Philip Marlowe, che ha l’ufficio al piano di sopra.

Ravennate, anzi faentino, in gioventù frequentatore del Dams di Bologna, Panebarco cominciò a publicare Big Sleeping sulle pagine de Il Mago, alla fine del 1976. Una delle più evidenti fonti di ispirazione è il Woody Allen che colloquiava con il fantasma di Bogart e ne veniva ripagato con ottimi consigli esistenziali (Provaci ancora, Sam).

Ma sono gli anni di Reagan e Breznev, il mondo è sovraccarico di tensione, la Grande Storia e la Grande Politica possono sfiorare il destino di un oscuro private eye, stazzonato e con una malinconica piega della bocca, soprattutto se in circolazione c’è un Piccolo Lenin che parla in sinistrese e si innamora di Ines, dirigente dell’UDI (Unione Donne Italiane: è il caso di scriverlo, visto quanto sono cambiati i tempi).

Batman. Oscure alleanze, Howard Chaykin

Pubblicato da Play Press nel 2000, ecco un Elseworld del 1996, una storia alternativa ambientata nel 1936, tre anni prima che Bob Kane inventasse Batman. Vi compaiono Hitler e Franklin Delano Roosevelt, e versioni alternative di Joker, Due Facce e Catwoman. Si sente il riverbero del Moore di V for Vendetta, quel misterioso individuo nascosto dietro la maschera di Guy Fawkes che si faceva giustizia da sé e affermava: “C’è qualcosa di profondamente sbagliato in questo Paese”.

Questo Batman ha capito che è inutile dare la caccia ai piccoli criminali, poiché il “male” sta a un altro livello. Perciò sfida i razzisti della Legione Bianca, con i loro mantelli e cappucci simili al Ku Klux Klan; l’eroe li sconfigge e, al momento in cui è costretto a fuggire (con l’aiuto del fedele maggiordomo Alfred, che tuttavia lo considera un po’ troppo socialista), smaschera il capo della Legione, un invasato reverendo con le sembianze di Joker.

Il playboy Bruce Wayne avvia una relazione con una star del cinema, Kitty Grimalkin, da anni specializzata in ruoli da vergine: sul suo contratto ipermoralista sta scritto che non può fare nulla che possa intaccarne la reputazione cinematografica. Ovviamente Bruce e Kitty sanno come aggirare questa regola, ma lui non può sapere che la donna è ricattata e deve riferire tutto quello che scopre su di lui.

Revisionando le origini dell’eroe, Chaykin ne enfatizza la differenza con l’originale: è il figlio di due medici uccisi dalla polizia perché avevano curato un anarchico. “Una pestilenza spirituale ha invaso il paese”, dice Bruce Wayne, sempre più convinto che il fascismo possa attecchire anche in America. Questo Batman fuori continuity combatte il fascismo strisciante, la mentalità che identifica Roosevelt in un ebreo e vede bolscevichi ovunque. Continua a leggere

Hulk. Grigio, Jeph Loeb e Tim Sale

Stan Lee e Jack Kirby immaginarono Hulk grigio, nel 1962, ma gli esordi del personaggio furono stentati: appena 6 numeri… Hulk rinacque verde, due anni dopo.

Passano quarant’anni, è il 2003, quando Loeb e Sale – come avevano fatto con l’Uomo Ragno (Blue) e Devil (Yellow) – rinarrano l’entrata in scena di Hulk, ripristinando il colore originale: al momento dell’esplosione di una nuova, terribile arma (la Bomba Gamma), lo scienziato che l’ha inventata (Bruce Banner), per salvare la vita di un ragazzo (Rick Jones) si espone alle radiazioni. Evolverà e regredirà in un gigante dalla forza formidabile e dai pensieri semplici. Vuole solo essere lasciato in pace.

Per tornare a quei tempi, Loeb e Sale inventano una specie di seduta psicanalitica fra Banner e l’amico Leonard Samson, che gli mostra tre foto: quella del generale Ross, quella di Rick e quella della sua amata Betty. Banner ricorda i primi giorni dopo l’esplosione, e tutta la storia ruota intorno all’amore di Betty e all’odio del padre, il generale Ross.

Di Betty, Banner dice: “Non capirò mai come poteva una donna con tanto amore provenire da una famiglia che non ne aveva affatto”.

La sceneggiatura di Loeb è incisiva, i dialoghi rendono bene l’instabilità degli istinti, l’intimità caotica del personaggio. Ma sono le illustrazioni di Sale a conferire le migliori qualità a questa storia: il suo Hulk rinnova certe atmosfere anni Sessanta, in un’alternanza di primissimi piani (gli occhi) e splash-page di combattimenti.

Più si arrabbia, più diventa forte; il suo vocabolario è estremamente ridotto, parla di sé in terza persona (“Hulk spacca”, “Hulk è Hulk”, “Hulk non è mostro!”). In lui si agitano i barlumi di una coscienza, ma non sa ancora capire cosa gli è successo, né spiegarsi l’ostilità del mondo nei suoi confronti, e permane in conflitto con l’identità che sta dentro di lui, quella di Bruce Banner.

Poi Tony Stark (Iron Man) cerca di catturarlo, ed è una battaglia inedita, mai narrata prima, forse perché Iron Man all’epoca era un’arma segreta sperimentale, e non esistevano i Vendicatori.

Hulk vorrebbe proteggere Betty, ma inavvertitamente le provoca paura e dolore. La sua psicologia elementare lo rende simile al mostro di Frankenstein; come il “mostro”, incapace di gestire la dolcezza e la brutalità, anche Hulk uccide, senza volerlo, il primo “amico”, un coniglio. La meraviglia davanti alle sue dita sporche di sangue è il momento magico di questo volume.

Alack Sinner così com’era, José Munoz e Carlos Sampayo

Entrambi argentini, Munoz disegna (bianco e nero), Sampayo scrive.
L’esordio di Alack Sinner risale al 1974; in una delle storie raccolte in questo volume dalla Milano Libri (1981) si vedono i manifesti di Carter e Reagan (elezioni del 1979).

Le storie riverberano echi letterari, cinematografici, storici (Guernica, e anche lo stile di Munoz riprende Picasso). Inquadrature sghembe, per una città sordida.

Pochi dialoghi, parole mai banali; certe tavole sembrano emergere dall’inchiostro, con il bianco che cerca di conquistare brandelli si spazio. Il segno grafico è tutt’altro che seducente, direi sgradevole se non fosse per l’estrema cura dei dettagli.

“Da quando sono nato, e perché sono nato in questo paese, ho saputo che avere un’opinione era pericoloso”: quello di Sinner è un personaggio dolente e disilluso, fisico massiccio e capelli biondi, un volto devastato (altri volti appaiono grotteschi, come li avesse disegnati Grosz); lo spazio dell’inquadratura è spesso riempito dalla sigaretta, dai mozziconi, dai bicchieri di whisky e di birra.

“Indagine vuol dire sempre penetrare in mondi in cui non ci hanno invitato e incontrare persone che il nostro ufficio offende e irrita”. Siamo a New York: Sinner è un investigatore privato che vive solo, ascolta Charlie Parker nel juke-box del bar di Joe, se n’è andato dalla polizia perché non riusciva più a sopportarne il fascismo intrinseco, l’essere al di sopra delle regole. Sul suo comodino, un pacchetto di Camel, una confezione di valium, mozziconi, e The Long Sleep. Ha combattuto in Corea (1953), nel ‘55 ha sposato Gloria, che si sarebbe poi risposata con Jack, da cui ha avuto due figli.

“Sono di una generazione a cui costa superare le cose”: Alack Sinner non ha più speranze: se ne rende conto Enfer, la ragazza nera che si innamora di lui e che lo lascia. “Perché? – La tua tristezza”.

Catwoman. Vacanze romane, Jeph Loeb e Tim Sale, 2005

La qualità grafica di questa miniserie – in particolare le sei copertine, dal lunedì al sabato – trae ispirazione dalle illustrazioni per la moda di un grande artista francese, René Gruau. Non mancano le citazioni cinematografiche, anche se la formosità di questa Selina Kyle la rende più simile ad Ava Gardner che a Audrey Hepburn.

Catwoman: When in Rome venne pubblicata dalla DC Comics tra il novembre del 2004 e il maggio successivo. Fa seguito a The Long Halloween e Dark Victory, due fra le migliori storie di Batman dell’ultimo ventennio, e precede Batman: Hush.

Artigli affilatissimi e lunghissimi capelli neri, acrobazie vertiginose, sempre inguainata in costumi che aderiscono come una seconda pelle – mostrata anche mentre fra il bagno o indossa lingerie nera – la Selina Kyle di Tim Sale è prorompente e conturbante; un ottimo contributo è dato dalle colorazioni di Dave Stewart.
Loeb compone un noir giocoso, assegnando alla protagonista una caratterizzazione sarcastica: «‘Mi stai solo facendo perdere tempo’. Questa è la prima cosa che Batman mi abbia mai detto. Un romantico bastardo, non è vero?».

Spia di un’attrazione irresistibile, ogni notte Selina sogna Batman, “cioè Bruce”: sono sogni sensuali, fantasie oniriche che somigliano a quelli della Little Ego di Winsor McKay.

Catwoman deruba Carmine Falcone, detto “il Romano”, definito come il boss del crimine di Gotham; nell’occasione, sfugge anche a Batman, e appaiono pure Joker e Due Facce, ma la scena si rivela un incubo, che rimanda a qualcosa che accadde a Selina nell’infanzia.
Decide di volare a Roma; dovendo risolvere un enigma, si fa accompagnare da Edward Nigma, l’Enigmista, raffigurato come un ometto insignificante, persino comico; in aeroporto scopre che le valigie sono smarrite… Selina dovrà girare per negozi per procurarsi undici paia di scarpe e qualche “capo in pelle”. Poi va a far visita, a modo suo, al boss mafioso Don Vernini.

«Spero che lei parli inglese, Don Vernini. Il mio italiano comincia con ‘Armani’ e finisce con ‘Gucci’»…

Jelly Shawn. Memorie di un’entraineuse, L’Isola trovata, 1985

Comincia con due mani che scrivono le proprie “memorie”, a partire dall’agosto 1919 quando le truppe controrivoluzionarie del generale Denikin sembrano riuscire a scacciare i “Rossi” dall’Ucraina. Resiste un piccolo esercito di contadini guidati da un anarchico.

Figlia di un giornalista americano e di una ballerina russa, la bionda Jelly Shawn fugge dal collegio femminile per seguire questi soldati in divisa verde, di uno di loro diventa l’amante. Quando costui viene ucciso, Jelly segue Igor e si ritrova a Berlino alla fine della Grande Guerra. Vive i tumulti che seguono all’uccisione di Luxemburg e Liebknecht, e il tentativo di colpo di stato di Ehrardt.

In marzo è a Parigi, dove chiede asilo politico; un pittore si offre di ospitarla, e anche con lui la scena di sesso (un sesso all’acqua di rose) è pressoché immediata, Jelly è piuttosto disinibita e non ha difficoltà a mostrare le lunghe gambe. A Parigi frequenta gli ambienti artistici (Tzara, Aragon), se ne stanca, fa la donna-proiettile in un circo, poi la sua nave diretta a Londra viene speronata ed è l’unica sopravvissuta. Continua a leggere

Tarzan delle scimmie, Burne Hogarth da Edgar Rice Burroughs, Mondadori, 1972

I primi disegni di Tarzan realizzati da Burne Hogarth risalgono al maggio 1937. Disegnò questo personaggio fino al 1950, e resistette per oltre vent’anni alle pressioni per tornarci sopra.

Tarzan of the Apes, il primo romanzo di Burroughs, era uscito nel 1912 su una rivista pulp e due anni dopo in volume, ne erano seguiti altri, il cinema li aveva già saccheggiati con varie pellicole, dal 1918 in poi.

La versione che ne dà Hogarth è inconfondibile: barocca, fantasmagorica, con una natura scintillante e incombente, primitiva e prodigiosa, brutale e brulicante di forme di vita. Hogarth mira a conferire forza visiva alla grandiosità di un mito, quello di un eroe sublime, senza macchia, il cui corpo è sintesi di classicità greca ed espressionismo tedesco, enfatizzandone l’energia e il dinamismo.

Con queste 120 grandi tavole a colori, Burne Hogath illustra la prima storia di Burroughs.

Lord Greystoke viene coinvolto dal governo britannico in una missione nell’Africa occidentale, dove un’altra potenza coloniale sta reclutando indigeni per farli sollevare contro la Corona; il Lord ha sposato da neanche tre mesi la nobile Alice Rutherford, è lei a dissuaderlo dal rinunciare all’incarico, anzi vuole assolutamente seguirlo. Continua a leggere

Eva Kant, di Angela e Luciana Giussani, 1969 (2003)

Fidanzata, complice, amante: la partner di Diabolik ha spesso ottenuto la ribalta tutta per sé. Una coppia perfetta, capace di realizzare un’eguaglianza di diritti e doveri, un legame indissolubile, impermeabile alle regole della società.
Apparsa nella terza avventura di Diabolik, nel lontano 1963, grazie anche all’inconfondibile silhouette, Eva Kant ha saputo conquistarsi una personalità resistente alla prova del tempo.

Ricordo del passato, 1969: Disegni di Glauco Coretti e Enzo Facciolo
Nell’anniversario del loro incontro, Eva ricorda “tutto come fosse ieri”: una storia che procede per flashback. Diabolik ruba il diamante rosa di Eva; lei, “dopo il primo attimo di paura ritrovai il mio sangue freddo”. Prima di fuggire, lui si toglie la maschera e la bacia: “Siete una donna sconcertante e stupenda”.

Diabolik viveva con la prima donna apparsa nella serie, la bruna Elisabetta, e proprio quando conosce Eva, viene catturato da Ginko. Al processo, Eva si fa guidare dagli occhi di Diabolik che trasmettono un messaggio in alfabeto Morse. Riesce a liberarlo, facendo in modo che al suo posto venga ghigliottinato l’uomo che la ricatta, un insospettabile…

Professione: ladra, 1974: Disegni di Flavio Bozzoli e Glauco Coretti, collabora ai testi Patricia Martinelli
Convalescente per una bronchite, Eva è lontana da Diabolik. Commette un piccolo furto, una spilla nei grandi magazzini, viene scoperta e incarcerata. Finisce nella cella di Gianna e si affeziona a questa ragazza che ha sempre vissuto da borseggiatrice. Insieme, le due donne rapinano un antipatico play-boy. Intanto, il colpo di Diabolik fallisce, Ginko è a un passo dal catturarlo, e Gianna ha capito che l’amica è Eva Kant…

Il signor Spartaco, Lorenzo Mattotti

Quest’opera risale al 1982, quando cominciò la sua pubblicazione a puntate, da gennaio a giugno, sulla rivista Alter Alter. Il volume edito da Milanolibri è del 1985.

Riletta tanti anni dopo, sembra fuori dal tempo: le 56 tavole a colori, con testi allusivi spesso in rima, si presentano come un autentico delirio visivo. Rossi e blu spumeggianti e altri colori vivacissimi illustrano il viaggio “epicentrico” – favolistico e reale, onirico e allucinatorio – di Spartaco, che sale in treno per andare a trovare la zia, si addormenta e comincia a sognare.

Mite e remissivo, il signor Spartaco ricorda Chance il giardiniere (Oltre il giardino, di Hal Ashby è del 1979) e anticipa Forrest Gump (Robert Zemeckis, 1994).

Realizzata con una tecnica mista – pastelli e pennarelli – , l’opera è linguisticamente sconcertante e visivamente abbagliante: i colori invadono le singole vignette, enfatizzano i volumi di corpi e oggetti, sembrano quasi uscire dalla tavola.

Il protagonista si lascia travolgere da un turbine di ricordi: i genitori, la morte, le fantasie infantili… l’inconscio tracima e prende forma, ognuno è libero di dare un senso all’irruzione di personaggi come il Dottore o Mister Blu.