L’albergo rosso, Honoré de Balzac, 1931

L’Auberge rouge, tradotto da Daria Pozzi, è un racconto che fa parte degli Studi filosofici, quelle trame a orologeria, costruite per porre un personaggio dinanzi a una decisione morale. Il fuoco dell’attenzione è su un omicida impunito e insospettato, fino a quando qualcuno scopre la verità. Penetrare in quel terribile segreto, si rivelerà penoso e dannoso: meglio sarebbe stato non aver scoperto nulla.

“Se come me aveste avuto il piacere di partecipare a questa allegra riunione di persone che avevano ritirato gli artigli commerciali per speculare sui piaceri della vita, vi sarebbe stato difficile detestare gli interessi da usuraio o maledire i fallimenti”. Alla fine di quell’ottima cena, fra capitalisti e commercianti e parecchie donne piacevoli e graziose, la figlia del padrone di casa chiede all’ospite tedesco di raccontare una storia. Costui si chiama Hermann.
A quel tavolo c’è anche un uomo già intravisto in Papà Goriot, pubblicato quattro anni dopo, quel tale Taillefer, grande finanziere che non volle riconoscere la figlia – Victorine, non citata – avuta dal primo matrimonio finché l’erede designato non venne ucciso a duello. “La povera ragazza è diventata così una delle più ricche ereditiere di Parigi”. Taillefer ascolta il racconto con evidenti segni di nervosismo.

Non vi racconterò le circostanze del delitto.
Balzac è certo che l’omicida sia Taillefer. Poi vede la figlia Victorine e se ne innamora. Ora, però, sa che la sua fortuna risale a un odioso delitto per il quale un altro è stato punito, e non sa decidersi sul che fare. Perciò invita a cena tutti i suoi amici più probi, onesti e di specchiata moralità, racconta loro i fatti e pone il dilemma. Deve sposare Victorine o allontanarsene? Votano in diciassette, a scrutinio segreto.

Dove finiremmo se andassimo a rivangare l’origine di ogni ricchezza”, gli dice uno degli amici. Tutti e nove i giovani votano a favore del matrimonio, tutti e otto gli anziani contro…

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