Il migliore, Bernard Malamud. #RoyHobbs

Ambiguo e implacabile, il destino avvolge Roy Hobbs fin dalla prima pagina. The Natural – il titolo originale – sta a identificare un uomo semplice, un talento naturale capace di fare cose che gli altri possono solo sforzarsi di imparare: è un romanzo profondamente americano, intorno al mito della “seconda opportunità” che tutti vorrebbero avere. Nel caso di Hobbs, si tratta di ricominciare con il baseball, dopo che la sua prima occasione di giocare nel campionato professionistico sfumò a causa di una donna.

Descrivendo l’ascesa e la caduta di un ragazzo di campagna, intrappolato nel suo passato e ossessionato dal desiderio di lasciare un segno nella storia del suo sport, Malamud compone una tragedia moderna, una favola fra salvezza e dannazione, polvere e gloria. L’eroe deve trovare la forza per rispondere ai colpi che gli riserva la sorte. Intorno a lui si muovono donne fatali, che attentano alla sua purezza e lo allontanano dal perseguimento dell’ideale. Qualche critico ha visto in Roy Hobbs una specie di Parsifal e in Wonderboy, la sua mazza, una versione di Excalibur.

Avendo visto il film, l’immagine scintillante di Robert Redford non mi ha mai abbandonato. Harriet (Barbara Hershey) si presenta con “la chioma sparsa in una schiuma di riccioli scuri… il viso era notevole, un po’ teso e pallido, e quando montò sul treno le sue gambe inguainate dal nylon diedero a Roy un attimo di batticuore”. Memo, con il suo “corpo da Miss America”, è Kim Basinger, Iris è Glenn Close. Girato nel 1986 da Barry Levinson, il film si concede un lieto fine che contraddice l’amara conclusione del romanzo.

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4173, mi ricordo

Mi ricordo che una decina di anni fa, intorno alle 16.45, venni formalmente convocato per un interrogatorio in Questura.

Un traduttore

Panico a Needle Park [The Panic in Needle Park] – Jerry Schatzberg, 1971 – 8

Prima di dare volto e corpo a Michael Corleone e a Frank Serpico, Alfredo James Pacino (25 aprile 1940) era apparso in due pellicole: Me, Natalie e questa, il suo vero e proprio esordio da protagonista.

È un film duro, tratta la droga come non si era mai visto prima. All’angolo tra la 72esima strada e Broadway, c’era questo piccolo parco – vero nome: Sherman Square -, rifugio di giovani tossicomani senza una causa e senza una speranza. La sceneggiatura è firmata da Joan Didion, scrittrice eccelsa, e John Gregory Dunne, e accanto ad Al Pacino si muove Kitty Winn, Palma d’Oro a Cannes, poi con un piccolo ruolo ne L’Esorcista e infine scomparsa.

Bobby è simpatico, strafottente, coraggioso, allegro; Helen si è trasferita a New York per studiare arte, e ha appena lasciato un pittore che non l’ha aiutata mentre era incinta. Bobby e Helen fanno coppia con leggerezza, si vogliono bene, si scoprono affini. Lui entra ed esce di galera dall’età di nove anni, si mantiene con il piccolo spaccio, e presto comincia a farsi. La rapida spirale autodistruttiva trascina Helen, che per comprare le dosi arriva a prostituirsi.

Il mercato oscilla. In certi momenti l’eroina circola a prezzi di saldo, in altri è introvabile (eccolo, il “panico” al parco della siringa). Lo stile della narrazione è quasi documentaristico, ogni ago nella vena è mostrato senza compiacimenti o ipocrisie. La leggenda dice che Keith Richards non riusciva a credere che il regista fosse stato capace di girare un film così preciso sull’eroina senza averne mai fatto uso.

Un poliziotto preme su Helen affinché denunci Bobby e lui possa portarlo dal suo capo. Alla ragazza dice: «Dei drogati una cosa tieni a mente: tradiscono sempre». Sentenza ineluttabile: lo spettatore si chiede che fine farà Bobby, che fine farà Helen, se al The End almeno uno sarà sopravvissuto.

Finale indimenticabile, vicino alla perfezione.

4172, mi ricordo

Mi ricordo il corso in cui cercavano di spiegarci la differenza fra i “buoni propositi” e gli “obiettivi”, che a quanto pare devono essere sia “realistici” che “sfidanti”.

Pistoia-Cantù, prima della quarta

Statistiche in avvicinamento alla finale di Champions: nel 15% dei casi finisce ai rigori, un altro 15% in goleada

L’interesse per Torino-Inter è solo per scoprire quale ragazzino esordirà in Serie A, nella speranza che non vis siano infortuni; e, per quanto mi riguarda, nessun problema se verrà data a Milan Skriniar la possibilità di salutare dal campo anziché dalla tribuna. A una settimana al 10 giugno, comincio a are i numeri…

Avviate nel 1955, le coppe europee di calcio hanno visto alzare almeno un trofeo a 63 squadre diverse. Solo 22 hanno vinto la Coppa dei Campioni, dal 1994 Champions League.

A farlo, per 19 volte è stata una squadra spagnola (Real 14, Barcellona 5), per 14 volte una inglese (Liverpool 6, United 3, Nottingham e Chelsea 2, Aston Villa 1), per 12 un’italiana (Milan 7, Inter 3, Juventus 2), per otto una tedesca (Bayern 6, Amburgo e Dortmund 1), per sei un’olandese (Ajax 4, Feyenoord e PSV 1), per 4 una portoghese (Benfica e Porto 2), e poi una da ex Jugoslavia, Francia, Romania e Scozia (Stella Rossa Belgrado, Olympique Marsiglia, Steaua Bucarest e Celtic Glasgow). Ecco le 22, un club molto esclusivo, che si è allargato per l’ultima volta nel 2012, con l’ingresso del Chelsea di Di Matteo.

Squadre di dieci Paesi diversi, dunque; si riducono a sei, se si considerano solo le finali di Champions League (quella del 10 giugno sarà la trentesima), e di queste 29 Coppe ben 27 si sono suddivise fra quattro Paesi (Spagna 12, Inghilterra 6, Italia 5, Germania 4).

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Vintage: Elliott Erwitt a Villa Bassi di Abano Terme fino al 28 giugno

Fra i fotografi più celebri, forse Erwitt è quello di cui ho visto più mostre; ricordo Forlì, Pordenone, e da ieri si aggiungono i 180 scatti in bianco e nero esposti a Villa Bassi, Abano terme (PD).

Nato a Parigi nel 1928 da genitori russi emigrati, da bambino ha vissuto in Italia, finché le leggi razziali hanno spinto a emigrare negli Stati Uniti. Dal 1953 è entrato a far parte dell’Agenzia Magnum. I suoi obiettivi preferiti sono il 50 mm e il 90 mm.

Il senso dell’ironia traspare spesso. Sia quando si tratta di mostrare la segregazione razziale o l’epoca della più esibita liberazione sessuale.

Di particolare sarcasmo, la foto scattata al matrimonio siberiano (Bratsk): un invitato, forse un testimone, sogghigna accanto agli sposi, che pare si chiedano il motivo. Ai limiti dell’incubo, certe foto di famiglia americana: dietro la patina della messa in posa sembrano nascondere qualche mostruosità. Non mancano la foto del bambino nero (Pittsburgh, 1950) che per gioco si punta la pistola alla tempia, o quella del bambino con la baguette, seduto dietro il nonno in bicicletta, nella campagna provenzale.

La prima fotografia di un cane risale al 1946; all’epoca, il punto di vista di quell’animale gli parve utile per un servizio di moda sulle calzature da donna. Da allora, i cani sono diventati uno dei fili conduttori più riconoscibili dell’opera di Erwitt.

Curata da Marco Minuz, nello spazio espositivo di Villa Bassi Rathgeb (via Appia Monterosso 52), la retrospettiva si sviluppa con 180 immagini in bianco e nero, di cui 30 in grande formato (comprese molte delle sue foto più iconiche) e 150 selezionate dal fotografo stesso, ancora attivo a novantacinque anni.

“Far ridere è una delle imprese più difficili. Se poi, come fa Chaplin, riesci a far ridere e piangere in alternanza, allora hai toccato il vertice assoluto. Non me lo pongo come obbiettivo dichiarato, ma lo considero il risultato più alto”.

Pink Cadillac – Buddy Van Horn, 1989 – 5

Tommy Novak è un moderno cacciatore di taglie. Lavora per il “garante” che ha versato la cauzione per qualche indiziato, che poi si è dato alla macchia: Novak lo insegue, lo cattura e lo riporta all’ovile (le spese per il carburante vanno documentate).

In questo caso, la preda di Novak è una giovane donna, Lou Ann, che al volante di una Cadillac rosa (come la canzone di Elvis) si è dileguata anche per sfuggire al marito, un piccolo delinquente finito in un giro di falsari fanatici (sono pieni di armi e meditano di compiere gesti esemplari contro neri, ebrei, comunisti, eccetera). Quando capisce di dover cambiare vita, Lou Ann affida la bambina di sei mesi alla sorella; ma non sa che la Cadillac rosa contiene un sacco di soldi veri…

“Se la catturi, la salvi”, dice a Novak il garante della cauzione. E, in effetti, quei suprematisti bianchi sono sulle tracce della giovane mamma, che si concede un fiammante vestito rosso e cerca di nascondersi in mezzo alla folla, a Reno, Nevada… Nella seconda parte, Novak assumerà le vesti del giustiziere e si legherà a Lou Ann.

Musiche country, sceneggiatura barcollante, attori mediocri (lei è Bernadette Peters), anche le scene di combattimento non brillano per intensità, nonostante Buddy Van Horn sia stato a capo degli stunt men in numerosi action movies. Tutto il film poggia sulle spalle di Clint Eastwood, che fa il possibile, ma deve incarnare un personaggio un po’ grottesco – senza un passato e con un presente banalotto – e combattere nemici balordi, psicopatici, più grotteschi del consentito (peggio dei nazisti dell’Illinois contro cui si destreggiavano Jake e Elwood).

Da wikipedia ricavo che “a causa dell’insuccesso di pubblico e critica ottenuto in patria, in Italia il film uscì direttamente in VHS nel settembre 1991”. Per pochi secondi, nei panni di un catastrofico imitatore di Elvis, compare l’ancora sconosciuto Jim Carrey. Lo stesso Clint si propone in un paio di travestimenti davvero kitsch.

Di e con Clint Eastwood

Il sangue è randagio, James Ellroy 2009 (ultimi appunti)

Alla base delle teorie del complotto ci sono voci incontrollabili, microspie, biografie compromettenti. Locations principali: Vegas (cioè Las Vegas), Los Angeles, Washington e Miami. Ellroy tiene un ritmo forsennato, frasi brevi, scandite dalla più semplice punteggiatura, con rari momenti di ricerca stilistica: “Miami era come il sogno di un febbricitante”… “Fumo e fuoco. Afa da palude. Un cielo arancione tendente al malva”. C’è spazio anche per la mafia, gli esuli anticastristi, gli eredi del Ku Klux Klan, l’editoria razzista, la cinematografia pornografica, il vudù caraibico, le droghe più ricercate, le ributtanti dittature che insanguinano Hispaniola, l’isola divisa fra Haiti e Repubblica Dominicana.

ellroy copGiugno 1968, Las Vegas: i grandi delitti americani – John Fitzgerald Kennedy, Martin Luther King e Bobby Kennedy – sono stati compiuti da apparati dello Stato, con perfetti colpevoli offerti all’opinione pubblica. Anche il traffico della droga e quello delle armi sono manipolati dal Bureau di Hoover, che evita di combattere la criminalità organizzata, con cui scende a patti pur di concentrare ogni energia contro i movimenti libertari e per i diritti civili.

Gli Stati Uniti sono diventati il regno ipnotico dell’ambiguità. Ubriachi di potere, i presunti difensori della legge si muovono al di sopra di ogni legalità e fanno il doppio o il triplo gioco.

La trama ruota intorno a tre personaggi principali, maschi di razza bianca. Continua a leggere

Yuppi du – Adriano Celentano, 1975 – 6

Scritto, diretto, interpretato e montato dal personaggio meno incasellabile della musica italiana, che – in quanto produttore – poté consentirsi la massima libertà. La fotografia di Alfio Contini ci immerge in una Venezia magica e in una trama inafferrabile (o, forse, inconsistente), su soggetto di Alberto Silvestri, sceneggiato da Celentano, Miki Del Prete e dallo stesso Silvestri.

Trascinata dalla canzone omonima, che salì in vetta alla Hit Parade, la pellicola ebbe un grande successo, ma la sua circolazione fu strana: esaurito il passaggio nelle sale, divenne virtualmente invisibile, mai pubblicata in videocassetta, in tivù solo alla fine dell’87, restaurata nel 2008.

Felice Della Pietà (Celentano) era sposato con Silvia Della Noce (Charlotte Rampling), che si è suicidata, lasciandogli una figlia. Ora Felice si è legato ad Adelaide (Claudia Mori), vivono in mezzo all’acqua circondati da freaks come Napoleone (Gino Santercole), Scognamillo (Memo Dittongo) e Nane (Lino Toffolo). All’improvviso, Silvia riappare e gli rivela di aver inscenato il suicidio per poterlo lasciare, stanca della povertà a cui era costretta. Ora vive a Milano, dove Felice la segue (tanto Venezia è colorata, tanto Milano è grigiastra); davanti al nuovo marito, Felice propone di vendergli la bambina a peso…

Messa in scena vertiginosa, delirante, piena di effetti visivi (alcuni splendidi, alcuni pessimi), con sconcertanti irruzioni pop, balletti di massa, dialoghi in sovrimpressione, elucubrazioni sull’amore e la responsabilità, coreografie da videoclip, morti sul lavoro, afflati evangelici, costumi stravaganti e grandangoli deformanti, personaggi fini a se stessi, suggestioni distopiche, e chi più ne ha più ne metta (“una girandola di invenzioni espressive”, scrisse Tullio Kezich). Memorabile il ballo con Charlotte Rampling seminuda.

Lazarus 1. Famiglia, Greg Rucka e Michael Lark, 2013

Cos’è, oggi, la sovranità? Alcune multinazionali hanno insediato imperi economici e dispongono di un potere ben superiore a quello di tanti Stati. Rucka ne ricava una distopia che immerge il lettore in un futuro prossimo venturo, dopo una presumibile guerra nucleare, quando il mondo potrebbe non essere più diviso in Stati, ma in ambiti economici e territori dominati da “famiglie” che difendono il loro monopolio con un guerriero, il Lazarus. Forever Carlyle è un essere artificiale, costruito in laboratorio e allevato fin dall’infanzia nella fede assoluta nella propria famiglia.

Questo volume raccoglie il primo ciclo di avventure, quattro capitoli e un breve preludio. Il primo numero è stato rilasciato il 23 giugno 2013. Ai disegni collaborano Stefano Gaudiano e Brian Level, i colori sono di Santi Arcas. È una serie progettata per durare anni, ma che sulla breve distanza risulta un poco ostica. Il mondo è suddiviso tra sedici famiglie rivali, che gestiscono i loro territori in un sistema feudale, fatto di “servitù” e “scarti”.

La famiglia ha una struttura patriarcale: a capo sta “il vecchio” Malcolm, poi ci sono cinque figli (Jonah, Beth, Steve, Johanna e Forever). Il Lazarus ha un fattore di guarigione che ricorda Wolverine: sembrava morta, invece si è ripresa e ha ucciso i tre incursori, penetrati chissà come fino alle celle frigorifere dei Carlyle, dove stanno le preziosissime sementi.

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4170, mi ricordo

Mi ricordo la squillante biancheria rossa di Kelly LeBrock, ma non ho alcun ricordo di dove lei, dopo quel film, sia andata a finire.

Uomini veri [The Right Stuff] – Philip Kaufman, 1983 – 8

Da un romanzo di Tom Wolfe (The Right Stuff, 1979), è un film emblematico della mutazione antropologica dell’American Way of Life. Protagonisti i piloti degli aerei che superarono il Muro del Suono e gli astronauti del primo programma spaziale (Mercury), che la NASA approntò per rispondere ai trionfi dello Sputnik e di Gagarin.

Differenza sostanziale fra piloti e astronauti: i primi non possiedono “la stoffa giusta” per la corsa allo spazio, mentre i secondi sono capaci di eccezionali prestazioni atletiche, e il loro addestramento è fatto di automatismi per ridurre a zero ogni margine di soggettività.

Nel 1947, nella base aerea Edwards, in California, vengono testati aerei in grado di raggiungere la velocità supersonica. Vari collaudatori muoiono, le loro foto vengono appese nel bar della base militare; finché Charles “Chuck” Yeager si offre di pilotare un Bell X-1 e riesce nell’impresa. A interpretarlo è Sam Shepard, sua moglie è Barbara Hershey: nonostante i suoi 193 minuti, il film lascia un po’ di amarezza per non aver approfondito il loro rapporto.

L’impresa di Yeager attira una quantità di giovani piloti, desiderosi di superare quei limiti: Mach 2 e ancora oltre. Intanto, alla Casa Bianca, JFK investe enormi risorse per rispondere alla sfida suprema, politica e tecnologica, contro l’Urss di Kruscev.

Sfida nella sfida, assistiamo alla competizione fra Alan Shepard (Scott Glenn), Virgil Grissom (Fred Ward), John Glenn (Ed Harris), Scott Carpenter, Walter Schirra (Lance Henricksen), Gordon Cooper (Dennis Quaid) e Donald Slayton, e ai maneggi del vicepresidente Lyndon Johnson (mostrato con molto sarcasmo), che cerca di farsi pubblicità con le imprese aerospaziali, mentre mogli e compagne degli astronauti trepidano per la loro sopravvivenza.

Grandioso spettacolo corale, con momenti epici, raccolse una quantità di nominations, fra cui quella per il miglior film dell’anno, ma di Oscar ne vinse solo quattro, tre “tecnici” e uno per le musiche di Bill Conti.

Peanuts: la coperta di Linus

Linus Van Pelt aveva fatto la sua comparsa sulle strisce dei Peanuts il 19 settembre 1952.

La sua indispensabile coperta, invece, spunta il primo giugno 1954, e lo accompagnerà per sempre, consolandolo delle tante delusioni che gli riserva l’esistenza, prima fra tutte l’inesplicabile mancata apparizione del Grande Cocomero.

4169, mi ricordo

Mi ricordo partite brutte, anche bruttissime, ma nessuna con tante perdite di tempo come la finale di Coppa Uefa fra Siviglia e Roma.

#Clint a novantatré anni

Nato il 31 maggio 1930 a San Francisco, a novant’anni Clint Eastwood aveva già interpretato 71 film, e ne ha diretti 41, lasciando un’indelebile impronta sulla Settima Arte.

Come ogni anno, in occasione del suo compleanno, ripropongo un post – in forma di classifica e continuamente aggiornato – in cui raccolgo le sue regie e le sue prove d’attore.

Di Clint attore, resta la memorabile sentenza di Sergio Leone, che ne distingueva le qualità con o senza cappello… Di Clint dietro la macchina da presa, se anche avesse diretto metà dei titoli qui sotto, e non necessariamente i migliori, sarebbe da considerarsi un autore eccezionale.

  1. Gli spietati
  2. Mystic River
  3. Million Dollar Baby
  4. Gran Torino
  5. Hereafter
  6. Un mondo perfetto
  7. I ponti di Madison County
  8. Il cavaliere pallido
  9. Bird
  10. J. Edgar
  11. Richard Jewell
  12. Mezzanotte nel giardino del bene e del male
  13. Potere assoluto
  14. Il corriere (The Mule)
  15. Cry Macho
  16. Changeling
  17. Debito di sangue
  18. Sully
  19. Jersey Boys
  20. Invictus
  21. Brivido nella notte
  22. Fino a prova contraria
  23. Il texano dagli occhi di ghiaccio
  24. Honkytonk Man
  25. Gunny
  26. Assassinio sull’Eiger
  27. Space Cowboys
  28. Cacciatore bianco, cuore nero
  29. La recluta
  30. L’uomo nel mirino
  31. Breezy
  32. Coraggio, fatti ammazzare
  33. Lo straniero senza nome
  34. Corda tesa

Quelli che seguono, invece, sono i film che Clint ha interpretato, senza curarne anche la regia. In rosso, i cinque capitoli della saga di Dirty Harry:

Too Big To Fail: dopo il colpo di spugna

A parte Gianni Cuperlo, gli altri tre candidati alla segreteria del Pd – in ordine di passione calcistica, Bonaccini, De Micheli e Schlein – hanno accuratamente evitato di prendere la parola sugli scandali giudiziari della squadra del cuore. Ottimi consulenti li avranno consigliati, orientandoli a questo opportunismo, l’ennesimo nel caso del Pd, che nove volte su dieci sembra scegliere la sua posizione dopo aver letto i sondaggi e ciò nonostante (o forse proprio per questo) perde quasi tutte le elezioni a cui partecipa.

Come ragiona il consulente? Soppesa i pro e i contro con una bilancia di precisione. In questo caso, i contro sono otto milioni di tifosi, la tifoseria più numerosa d’Italia, quella che Gravina chiama “brand”, manifestando la sua ritrovata “serenità” dopo lo scandaloso patteggiamento di ieri.

Un patteggiamento che, con rarissime eccezioni, tutto il mondo del calcio italiano si aspettava. Perché la Juventus è «too big to fail», troppo grande per fallire, troppo grande per essere trattata come un Chievo qualsiasi. La Legge può essere uguale per tutti quelli che arrivano fino a un certo fatturato: poi, quando si arriva ai piani alti, è abituata a chiudere gli occhi.

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La camera azzurra [La chambre bleue] – Mathieu Amalric, 2014 – 8

Ripercorso con fedeltà, nella sua freddezza geometrica, il romanzo di Simenon (1964) diventa un film sull’amour fou, con ottimi interpreti che gli conferiscono una conturbante ambiguità.

Nella placida provincia francese, non lontano da Poitiers, due adulteri quarantenni, Julien e Esther, ci vengono mostrati mentre fanno sesso nella camera azzurra dell’Hotel de la Gare. Lui è sposato con Delphine, hanno una bambina, mentre lei è legata al proprietario della farmacia.

Si erano conosciuti molti anni prima, ma Julien se n’era andato e aveva fatto ritorno dopo quindici anni. Eshter l’aveva sedotto. Per undici mesi, i due avevano consumato la loro relazione segreta, lei esponeva un asciugamano rosso alla finestra, nei giorni in cui poteva vederlo; per Julien, era “la sola donna con cui ho sperimentato la pienezza dell’amore fisico”. Ma non è una dichiarazione d’amore, fa parte di un verbale di polizia.

Il film, infatti, procede attraverso interrogatori compiuti dai poliziotti, da uno psicologo e infine dal giudice istruttore. Sia Eshter che Julien stanno in carcere, accusati di aver ucciso i rispettivi consorti… È lo stesso regista a interpretare Julien, Léa Drucker è sua moglie, Stéphanie Cléau è Esther, Laurent Poitrenaux il giudice; a firmare la sceneggiatura sono Amalric e Cléau, proprio gli attori che interpretano gli amanti.

Eshter rimpiange gli anni in cui sono stati lontani, afferma di essersi sposata solo perché Julien non c’era, un giorno gli chiede: «Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?»… Ma quel rapporto clandestino è vissuto in maniera diversa, Julien non sembra deciso a chiudere con la sua famiglia. Un pomeriggio, mentre sono nudi nella camera azzurra, Julien veda il marito di Eshter dalla finestra e ha una crisi di panico. Fugge. Lei gli invia biglietti, che lui distrugge.

Quando i due si rivedono davanti al giudice, è evidente il sospetto che abbiano pianificato i delitti e agito per un “tacito accordo”.

La camera azzurra, Georges Simenon, 1964

“Tony aveva conosciuto molte donne nei suoi trentatré anni, ma nessuna gli aveva procurato lo stesso piacere di Andrée. Un piacere assoluto, animalesco, senza secondi fini, e mai seguito da disgusto, disagio o stanchezza”.

Man Ray

Mentre facevano l’amore, Andrée gli ha morso un labbro, facendolo sanguinare; Tony la tranquillizza, sua moglie non farà domande. È l’ottava volta che si incontrano in undici mesi, in quella camera dalle pareti azzurre dell’Hotel del Voyageurs, nella piazza della stazione di Triant, un paese vicino a Poitiers.

Quel giorno, Andrée chiede a Tony: “Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?”. Tony risponde “Certo”, quasi sovrappensiero.

L’albergo è di Vincent, il fratello di Tony. Ma proprio quel giorno, Tony vede arrivare Nicolas, il marito di Andrée: fugge, temendo li abbia scoperti.

Simenon ci mostra Tony che viene interrogato mentre sta in carcere: lo svolgimento dei fatti è inframmezzato dalle domande del giudice istruttore. Dev’essere successo qualcosa di grave, un delitto: ma chi sarà la vittima?

Gli amanti si conoscevano dai tempi della scuola. Tony aveva sposato Gisèle, era nata Marianne; oriundo italiano, orfano di madre dall’età di sette anni, Tony è un uomo modesto, ma non privo di ambizioni. Fa l’artigiano, si è riempito di debiti per poter lavorare in proprio. Non ha mai pensato di lasciare la famiglia. Andrée, invece, ha sposato un ricco commerciante, possiedono una drogheria, alcune case e fattorie; Nicolas, come il padre, soffre di una grave forma di epilessia.

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4168, mi ricordo

Mi ricordo i tagli che decisi di dare alle mie relazioni personali quando lasciai la politica, ora se ne annunciano altrettanti per il necessario distacco dal calcio.