Bulworth – Il senatore [Bulworth] – Warren Beatty, 1998 – 5

Fra gli innumerevoli film sulla politica americana, fra Casa Bianca, Congresso, Senato, lobbies, eccetera, ecco un prodotto che inseguiva l’originalità, finendo per smarrire il senso.

A sessantadue anni, è un Beatty tuttofare, regista, soggettista, sceneggiatore (insieme a Jeremy Pikser), nonché assoluto protagonista, nei panni di Jay Billington Bulworth. Può disporre della fotografia di Vittorio Storaro, dei costumi di Milena Canonero, delle musiche di Ennio Morricone, delle scene di Dean Tavoularis, ma tanta qualità tecnica non trova corrispondenza nel risultato finale.

Forse dipende dalla stranezza del casting: Halle Berry è la bella Nina, Don Cheadle fa il boss del ghetto, appaiono Paul Sorvino e Jack Warden, Richard Sarafian e Christine Baranski (la moglie del senatore, attenta solo a salvare le apparenze).

Stanno per svolgersi le Primarie in California e il senatore Democratico Bulworth ci viene mostrato in pieno esaurimento nervoso: non mangia e non dorme da giorni, è arrivato al punto da commissionare il proprio omicidio, ingaggiando un killer che non conosce e che eseguirà il contratto appena sarà garantita la copertura assicurativa da destinare alla figlia. Per motivi che lascio scoprire allo spettatore, Bulworth cambia idea, riprende la voglia di vivere, ma deve risolvere un problema: annullare il contratto con il killer.

Con il passare dei minuti, il tono del film accentua il grottesco, senza rendersi divertente; non escludo che sia uno di quei casi in cui la traduzione compromette molte battute e doppi sensi. Non vinse nulla, ma ebbe la nomination agli Oscar per la migliore sceneggiatura.

Con la prospettiva di una morte imminente, Bulworth comincia a distruggere i discorsi preparati dallo staff e pronuncia verità scandalose, indicibili (come Peter Finch in Quinto potere). Lo fa a tempo di rap, vestendosi come un rapper… Finale imperscrutabile: quando sembra che tutto si sistemi, si sente uno sparo…

Asunta [El caso Asunta] – 2, fine

All’inizio di ciascun episodio, una scritta ci ricorda che stiamo assistendo a una storia vera.

Oltre che sull’omicidio, la serie affronta le dinamiche familiari degli investigatori: il pubblico ministero che deve accudire l’anziano padre, la poliziotta che si sottopone all’inseminazione artificiale, il poliziotto alla vigilia della pensione, che non riesce più a dormire.

Nel quinto episodio, con la classica rappresentazione “alla Rashomon”, vengono mostrate due possibili ricostruzioni dell’omicidio: la prima identifica il colpevole in Rosario, la seconda coinvolge anche Alfonso. Lo spettatore è ripetutamente spinto a cambiare idea, finché – come la giuria popolare – sarà chiamato a scegliere fra quattro ipotesi: la colpevolezza della madre, oppure del padre, oppure di entrambi, o che Rosario e Alfonso siano innocenti, ma a quel punto svanirà ogni possibile colpevole.

“Il caso Asunta” ha fatto molto discutere, incrociando varie questioni critiche: dai criteri con cui si assegnano le adozioni internazionali, ai segreti inconfessabili che si celano dietro la facciata di una famiglia benestante, al ruolo dell’informazione in casi di omicidio così eclatanti.

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Gone Baby Gone – Ben Affleck, 2007 – 8

Ambientato in un quartiere malfamato di Boston, dal romanzo La casa buia (Gone, Baby, Gone, 1998, di Dennis Lehane), ha qualche assonanza con Mystic River e mi è parso un thriller teso, compatto, ben congegnato. Fotografia di John Toll, due volte Oscar.

Viene rapita una bambina di quattro anni: Amanda McCready era stata lasciata sola nella sua cameretta dalla madre Helene, che ha problemi di cocaina. Non pare possa trattarsi di riscatto: tutti sanno che Helene vive di espedienti.

Patrick Kenzie è un giovane investigatore privato, che ha aperto una piccola agenzia con Angie Gennaro, sua socia e fidanzata: i due sono interpretati da Casey Affleck e Michelle Monaghan. Nel cast, anche Morgan Freeman e Ed Harris, ma l’interpretazione più potente è quella di Amy Ryan (la ricordavo nella fenomenale serie tv The Wire), giustamente candidata all’Oscar per il ruolo di questa madre disfunzionale.

È la sorella di Helene, la zia della bambina, ad assumere Kenzie e Gennaro: i due detectives conoscono il quartiere e forse possono arrivare dove la polizia non troverà collaborazione. Vista la situazione, Angie vorrebbe rifiutare l’incarico, Patrick la convince.

I rapporti con il comando di Polizia non saranno semplici, soprattutto quando diventa chiaro che Helene è coinvolta in un traffico di droga e sua figlia fa da ostaggio. Va effettuato uno scambio, Patrick è l’unico che può farlo. Ovviamente, qualcosa va storto, e fra i poliziotti si cela parte del problema… Patrick mostra un approccio viscerale, respinge ogni richiamo al buon senso, spinge Angie a lasciarlo.

Bene e Male, Giusto e Sbagliato, Verità e Menzogna: Lehane propone un congegno narrativo ben calibrato, che non concede allo spettatore alcuna consolazione. Fece bene Ben Affleck a scegliere questo romanzo per il debutto dietro la macchina da presa: ho la sensazione che in seguito (Oscar per Argo incluso) non abbia realizzato niente di meglio.

Asunta [El caso Asunta], 2024

Non essendo spagnoli, assistiamo a questa miniserie senza aver conosciuto i clamori mediatici suscitati da questa “storia vera”, che si sviluppò dal 21 settembre 2013.

Dal 26 aprile, Netflix propone la serie in sei episodi, poco meno di sei ore complessive. I creatori sono Ramón Campos, Gema Neira, Jon de la Cuesta e David Orea Arribas; alla regia, Carlos Sedes e Jacobo Martinez. Attori e personaggi principali: Candela Peña nel ruolo di Rosario Porto, Tristán Ulloa è Alfonso Basterra, Iris Wu (Asunta), Javier Gutiérrez (il pubblico ministero Juez Malvar), Carlos Blanco (agente Javier Ríos), María León (agente Cristina Cruces); Francesc Orella è Juan José Domínguez, l’avvocato di Rosario; Alicia Borrachero interpreta Elena Garrido, l’avvocato di Alfonso.

La serie è ambientata in Galizia, in gran parte a Santiago di Compostela, dove si svolsero i fatti.

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Amore e guerra [Love and Death] – Woody Allen, 1975 – 6

Alla sesta regia, Woody confeziona una pellicola sgangherata e stracolma di citazioni (persino Ejsenstein), ma sembra confermare un’inguaribile attitudine per lo sketch, il frammento, il dialogo brillante e il monologo da cabaret, a scapito di una scrittura più cinematografica.

Fare un film di guerra tramite la commedia – ecco l’obiettivo – attingendo alla smisurata tradizione ottocentesca della Russia zarista, a partire da Guerra e pace. Gli esterni vennero girati in Francia e in Ungheria, le musiche sono di Sergei Prokofiev.

Doppiato da Oreste Lionello, Woody interpreta Boris Grushenko, perdutamente innamorato di Sonja (la splendida Diane Keaton), costretto a inseguirla nelle pause in cui Napoleone si riposa. Vita fin troppo movimentata e avventurosa, quella di Boris, che pure sarebbe un esplicito fifone e vigliacco, ma la morale dei tempi lo costringe a imparare la guerra e il duello (memorabile quello con il borioso Anton Ivanovic, interpretato da quell’Harold Gould che si era messo in mostra con La stangata). In questo caso, la causa era la sensualissima contessa Aleksandrovna (la francese Olga Georges-Picot pare uscita da un boccaccesco italiano).

Prima di arrivare ad accoppiarsi, Boris e Sonja si perdono in verbose, astruse discussioni filosofiche. Purtroppo, lei si innamora solo di uomini pessimi, dopo una delusione ripiega su un puzzolente mercante di aringhe, che tradirà con chiunque, Boris escluso.

Quando Napoleone sta per conquistare la Russia, Sonja trascina Boris in un assurdo piano per assassinare l’invasore: la commedia degli equivoci prende il sopravvento, depistata da ampie dosi di Bergman. Imprigionato, atteso dal plotone di esecuzione, Boris vede un angelo che gli preannuncia che all’ultimo momento verrà graziato… Si ride, inutile negarlo; ma nessuno al mondo immagina che stia per esplodere il più grande talento comico della sua generazione, il film successivo sarà Io e Annie, a stretto giro seguirà Manhattan.

The Nightmare Before Christmas [Tim Burton’s The Nightmare Before Christmas] – Henry Selick, 1993 – 8

Ibrido inclassificabile, di magica tenerezza, fra animazione e horror, musical e fantasy; la regia è di Henry Selick, Burton fu “solo” l’ideatore della trama e dei personaggi, nonché uno dei produttori, per conto della Touchstone Pictures, divisione della Disney. Musiche di Danny Elfman; art director Deane Taylor. Una volta tanto, bisogna partire dai doppiatori italiani: è Renato Zero a dare voce a Jack Skeletron, mentre Sally è affidata a Laura Boccanera e Marjorie Biondo, rispettivamente nei dialoghi e nel canto.

Il fulcro è la dialettica è fra Halloween e Natale. Paura e gioia. Pare che l’idea di partenza risalga a una poesia che Burton scrisse dopo aver visto una vetrina in cui gli addobbi di Halloween venivano sostituiti dalle decorazioni natalizie.

Re delle zucche della città di Halloween, Jack Skeletron, tutto teschio e fisico filiforme, non credeva potesse esistere un mondo multicolore, vivace, stracolmo di regali, festoso… La sua esistenza si era limitata a un universo ombroso e gotico, cupo e malinconico. Ma trasferire l’altro mondo nel suo, si rivela fallimentare, a forte rischio di rigetto, come un trapianto di cuore. Accadrà che i cittadini di Halloween fraintendano il significato del Natale, e i loro regali si rivelino pericolosi e macabri.

Esperto di animazione in stop-motion (tecnica lenta e faticosa, alla confezione hanno lavorato 120 disegnatori), Henry Selick si destreggia fra Sally, la timidissima bambola di pezza che si scuce e si ricuce da sola, il terribile Baubau (mostro celato dentro un sacco di iuta), Babbo Natale, il Dottor Finkelstein, scienziato pazzo che si muove con Stranamore, e il simpatico cane fantasma, Zero.

Jack è buono, l’amore trionfa, il protagonista apre gli occhi (o, meglio, le orbite) sui veri sentimenti di quella dolcissima, sgangherata bambola di pezza.

In Time – Andrew Niccol, 2011 – 6

Dal regista di Gattaca, un’altra distopia, più intelligente che convincente, con tre attori di fama: Justin Timberlake, Amanda Seyfried e il futuro Oppenheimer, Cillian Murphy. Assurdo aver sacrificato Olivia Wilde così presto; sbrigativo anche il sacrificio del ricco centenario stanco di vivere, affidato all’attore Matt Bomer.

L’idea di partenza è suggestiva, ma non regge un film di 109’: sarebbe stata perfetta per un episodio di Ai confini della realtà. In un futuro prossimo venturo, l’anno 2169, non esisterà il denaro, ogni merce e ogni prestazione verrà pagata con il tempo.

Gli individui sono geneticamente programmati per vivere fino a venticinque anni; da quel momento, tramite un chip installato nel braccio, comincia il letale conto alla rovescia, che permette di vivere un solo anno. Un mondo di tutti giovani, dunque. E il tempo rimasto è inciso sulla pelle, segnando la differenza fra ricchi e poveri. Si può comprarlo o venderlo, e si muore di colpo. In linea teorica, i ricchi potrebbero arrivare all’immortalità.

Le classi sociali diventano quantomai evidenti, la megalopoli è divisa in “quadranti”, separati da posti di blocco in cemento. Le forze dell’ordine si chiamano “custodi del tempo” e riscuotono lo stipendio giorno per giorno: la loro missione è impedire passaggi di grandi quantità di tempo da un quadrante all’altro.

Fotografia di Roger Deakins. Né Timberlake, né la Seyfried possiedono il dono della simpatia, ma il film non offre di meglio. Si avverte una specie di sdoppiamento, fra una prima parte filosofico-esistenziale e una seconda che piega verso il videogioco e l’action movie. Come spesso accade, il personaggio più interessante è il cattivo, la cui glaciale, perfida personalità è assegnata a Vincent Kertheiser, noto per la serie televisiva Mad Men.

Lo scrittore Harlan Ellison intentò una causa: a suo avviso, la sceneggiatura di In Time avrebbe troppe similitudini con un suo racconto del 1965, ma poi ha rinunciato all’azione legale.

La tenda rossa (Krasnaja palatka), Mikhail Kalatozishvili – 1969 – 7

La tenda rossa - 1971 - Mickail Kalatozov

Ricordo la fortissima impressione che mi fece quando lo proiettarono nella palestra della scuola, avrò avuto 12 o 13 anni: il freddo nelle ossa, quella macchia rossa sul bianco dell’Artico, l’antipatia suscitata da personaggi che inseguivano la gloria (Umberto Nobile, Roald Amundsen), la continua contrapposizione fra eroismo e istinto di sopravvivenza, l’ammirazione per l’avanzata della nave rompighiaccio, il sollievo al momento del salvataggio degli ultimi superstiti, dopo sette settimane di permanenza sul pack.

Ispirata alla disastrosa spedizione al Polo Nord del dirigibile Italia, comandato dal generale Umberto Nobile nel 1928, questa coproduzione italo-sovietica indugia sul rapporto sentimentale che si instaura fra una bella infermiera e un meteorologo svedese che salirà sul dirigibile, muovendo dall’incubo ricorrente dell’ormai anziano generale Nobile. Insonne, incapace di risolvere ricordi e rimorsi, il generale indossa la divisa dell’epoca ed evoca i principali protagonisti della vicenda nel suo salotto domestico (vive in una splendida casa nei pressi del Colosseo). Da questi fantasmi, intende farsi processare, le testimonianze ricostruiscono i fatti, ma la sentenza sarà ambigua, come il giudizio storico sull’intera vicenda.

Sean Connery interpreta Amundsen, Claudia Cardinale è l’infermiera, Peter Finch incarna l’ambizioso generale. Le riprese in esterno furono realizzate in territorio sovietico. Musiche di Ennio Morricone.

L’altalena di velluto rosso [The Girl in the Red Velvet Swing] – Richard Fleischer, 1955 – 6

In CinemaScope, fotografia di Milton Krasner, con tre attori che associo a personaggi antipaticissimi, ecco una “storia vera” intrinsecamente americana, un delitto clamoroso, che dilagò dalla cronaca nera, segnando il dibattito pubblico nella New York della Belle Époque.

I tre attori “antipatici”? Ray Milland, che voleva uccidere Grace Kelly in Delitto perfetto; Farley Granger, che ingannava Alida valli in Senso; Joan Collins, che una trentina di anni dopo sarà la star di Dynasty.

Stanford White era il più celebre e acclamato architetto del tempo, aveva disegnato le ville di alcuni magnati newyorkesi, teatri, biblioteche, tombe monumentali, il nuovo Madison Square Garden.

Harry Kendall Thaw era il ricchissimo erede di una famiglia di Pittsburgh, prepotente, capriccioso, viziato, forse cocainomane e affetto da qualche malattia mentale.

Figlia di una sarta di scena, Evelyn Nesbit era una ballerina di fila, ma il suo profilo aveva incantato l’illustratore Charles Dana Gibson, che all’epoca stabiliva i canoni della bellezza femminile.

Soggetto e sceneggiatura di Walter Reisch e Charles Brackett, con la consulenza della vera Evelyn: dunque, si può credere che l’altalena di velluto rosso sia realmente esistita, e facesse parte dell’arredamento “erotico” dell’architetto (quando si conobbero, aveva quarantasette anni, Evelyn sedici), qui descritto come un benefattore (all’amante pagò il dentista e il collegio).

Circa sei anni dopo, la sera del 25 giugno 1906, Thaw scaricò la sua pistola sul corpo di White davanti a centinaia di testimoni, il pubblico che stava assistendo alle Ziegfeld Follies. Arrestato e processato, Thaw se la cavò con una condanna lieve, l’infermità mentale servì all’avvocato almeno quanto la testimonianza di sua moglie, Evelyn Nesbit.

Avevo già visto questa storia, rappresentata da Miloš Forman in un film splendido ma di scarso successo: Ragtime (1981), con Elizabeth McGovern nel ruolo di Evelyn e lo scrittore Norman Mailer in quello di White.

American Fiction – Cord Jefferson, 2023 – 8

Autentica sorpresa, l’ho visto su Prime Video dopo l’assegnazione dell’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale (meritatamente battuti Oppenheimer e La zona d’interesse). Alla base, un romanzo del 2001, Erasure (Cancellazione), di Percival Everett, rimaneggiato dal quarantenne regista (e produttore), già vincitore di un Emmy per la miniserie Watchmen.

Non ci sono attori famosi, se tale non si considera Jeffrey Wright, più volte nei panni dell’agente CIA che affianca James Bond (muore annegato nell’ultimo capitolo della saga). Classe 1965, Wright ha vinto un Emmy per la miniserie Angels in America, ha interpretato Basquiat nel film di Schnabel, e lo ricordo in Syriana e Le idi di marzo, nonché nell’ultimo Batman, dove il commissario Gordon ha la pelle nera.

Pelle nera che è anche del professore e scrittore Thelonious Ellison, detto Monk. Afroamericano dell’alta borghesia, dovrà rendersi conto della pervasività degli stereotipi e dei pregiudizi che incasellano le persone come lui. Non pubblica da un po’ e non ha mai avuto successo, ma l’aggravarsi dell’Alzheimer della madre e l’essere scelto come giudice di un premio letterario lo spingono a fare i conti con il passato, fino a strumentalizzare le logiche editoriali che tanto disprezza.

Lui che sia chiama Ellison (come Ralph, l’autore di L’uomo invisibile), e per soprannome ha Monk (come il leggendario pianista jazz), fingendosi evaso dal carcere, sotto pseudonimo, pubblica il libro “nigger” per eccellenza, fatto di poliziotti assassini, vita dura nel ghetto, coraggio e violenza, rapper e crack, machismo e disprezzo per i bianchi. Ovviamente, è un trionfo…

Raffinato nella descrizione della vita pubblica, il film è magistrale nel delineare le relazioni familiari e affettive del personaggio; fra gli ottimi interpreti, spicca la breve interpretazione di Tracee Ellis Ross.

E.R. Medici in prima linea – la seconda stagione

Created by Michael Crichton, la serie – 22 episodi di 43-46 minuti – fu trasmessa sulla NBC dal 21 settembre 1995 al 16 maggio 1996; in Italia, su Rai 2 dal 18 ottobre 1996 al 10 gennaio 1997.

Nell’ordine di comparizione nella sigla, i personaggi principali sono Mark Greene (Anthony Edwards), Doug Ross (George Clooney), Susan Lewis (Sherry Stringfield), John Carter (Noah Wyle), Carol Hathaway (Julianna Margulies) e Peter Benton (Eriq La Salle). Si aggiunge, con un frame sorridente, Jeanie Boulet (Gloria Reuben), nel ruolo già ricoperto nella prima stagione, ed entra in scena Kerry Weaver (Laura Innes), destinata ad assumere un peso più rilevante.

La dottoressa Kerry Weaver è stata chiamata da un altro ospedale per coordinare i medici assistenti e dare ordine alla frenetica attività del Pronto Soccorso. Cammina con una stampella (non ci viene detto cose le sia successo). È autoritaria, di una sincerità spesso urticante, ma si rivela bravissima: dopo una fase di forti tensioni, i colleghi e le infermiere cominciano ad apprezzarla. in pochi secondi dell’undicesimo episodio, si scopre che Weaver ha un profondo legame con un giovane africano, e ha posseduto una fattoria in Africa.

Rispetto alla prima stagione, sono confermate le presenze di Jerry Markovic (interpretato da Abraham Benrubi), il gigantesco e simpatico addetto all’accettazione; di David Morgenstern (William H. Macy), primario del Pronto Soccorso e di Chirurgia; e di Angela Hicks (CCH Pounder), assistente di Chirurgia.

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Smoke. Stasera mi sottopongo a un esperimento su quanto sono cambiato negli ultimi diciotto anni

Ho ordinato il dvd.
È arrivato.
Stasera rivedrò Smoke, il film di Wayne Wang e Paul Auster, che vidi nell’autunno del ’95 e tornai a rivedere la settimana dopo, e poi mi procurai il romanzo e lo lessi… Insomma un film che mi emozionò molto, e di cui conservo alcuni ricordi molto nitidi (sempre che siano corretti).

Harvey Keitel, il suo tabacco e le sue fotografie piene di dettagli… William Hurt, il suo dolore e il risveglio inatteso… Forest Whitaker, quando infine sorride… E poi Brooklyn.
Smoke rimanda a un periodo complicato della mia vita, vi si è sovrapposto fino a confondersi.

(26 luglio 2013, in ricordo di Paul Auster)

L’eroe della strada [Hard Times] – Walter Hill, 1975 – 7

All’esordio, Walter Hill prende un soggetto di Bryan Gindoff e Bruce Henstell: protagonista la coppia formata da Charles Bronson (1921) e James Coburn (1928), doppiati da Renzo Montagnani e Renato Turi.

Anni Trenta, per l’America sono gli Hard Times, la Grande Depressione: sopravvivere è l’imperativo categorico, bisogna essere disposti a tutto e fra le occupazioni meno disprezzabili, Chaney sceglie quella di fare a pugni. Non a boxe, con il ring, l’arbitro, i guantoni, le regole: Chaney fa a pugni a mani nude, in luoghi clandestini, guadagnando con le scommesse.

Viaggia di città in città, senza legami, ma ha bisogno di un manager: lo trova in Speed, che ha appena visto il suo pugile messo rovinosamente al tappeto. Cominciano nel giro piccolo, poi salgono di livello, vanno a New Orleans, ma oltre una certa soglia servono tanti dollari e Speed ha il vizio del gioco, perde a dadi quello che vince grazie al suo pugile. Finisce nel giro degli strozzini.

Non ci sono ideali, non ci sono progetti. Speed ha una donna, ma trova più emozione nei dadi. Anche Chaney incontra una donna, Lucy (Jill Ireland, 1936), la corteggia discretamente, le fa piccoli regali, ma non sopporta alcun rimprovero. Arriva il momento in cui Speed non può pagare gli strozzini e viene sequestrato; Chaney non avrebbe debiti con lui, è una sorta di legame morale che lo spinge a un ultimo combattimento, contro in forzuto fatto venire da Chicago.

Un combattimento anticipa Mad Max nell’infernale gabbia del Thunderdome; niente musica, solo gli ansimi e il rumore delle nocche che colpiscono il volto e il tronco dell’avversario.

Bronson e Coburn hanno fatto film migliori, per esempio quelli diretti da Sergio Leone, ma la loro fisicità e le loro rughe li rendono credibili in una storia che distribuisce più violenza che speranza.

Dal 1968 alla prematura morte nel 1990, Jill Ireland fu la moglie di Bronson.

I trafficanti [The Hucksters] – Jack Conway, 1947 – 6

New York, la Seconda guerra mondiale è appena finita e dal fronte europeo torna Victor (Clark Gable, 1901), fascinoso e faccia da schiaffi come sapeva esserlo solo lui. Da civile, faceva il pubblicitario a Hollywood, ora è quasi sul lastrico, sta per avere un colloquio di lavoro presso un’importante agenzia in Madison Avenue, è scapolo e si rivelerà un eccelso improvvisatore. Per chi ha visto Mad Men, questo Victor Norman pare il prototipo di Don Draper.

Con grande calma, fingendo di non aver alcun bisogno di lavorare, Victor si fa assegnare un progetto difficile: convincere una donna algida ed elegante, Kay Dorrance (Deborah Kerr, 1921) a fare da testimonial per un sapone. Vedova con due figli, al suo esordio hollywoodiano, Kerr appare splendida, sofisticata, seconda solo a Grace Kelly in quel genere di femminilità. È in bolletta e quell’ingaggio le fa davvero comodo…

Grazie a questo successo, l’agenzia affida a Victor il cliente più ricco e incontentabile, tirannico ed esigente: lo interpreta Sydney Greenstreet (1879) tante volte visto accanto a Bogart. Solo Victor può ammansirlo, ma intanto la sua vita privata è strattonata da due donne, la citata Kay, e una non meno splendida cantante di night, Jean Ogilvie (Ava Gardner, 1922).

È molto attratto da Kay, ma appartengono a mondi molto diversi, mentre Jean è proprio come lui. Victor ha deciso di sposarsi e sistemare la sua vita: per farlo, è disposto a scendere a compromessi con il cliente, persino a umiliarsi se servirà ad assicurarsi un ricco stipendio. Ma al dunque, sceglierà la coerenza…

Il meglio di questa pellicola sta nelle schermaglie pubblicitarie, mostrate con gusto satirico, mentre i corteggiamenti – al netto dei vent’anni di scarto fra Gable e le due donne – sono risolti in modo convenzionale.

Produzione MGM, da un soggetto di Frederic Wakeman Sr.; il titolo italiano fa pensare a tutt’altro che a una commedia.

Chiamate Nord 777 [Call Northside 777] – Henry Hathaway, 1948 – 7

Chicago, Illinois, alla fine del Proibizionismo era una città violentissima: si contarono 365 omicidi nell’anno 1932, uno al giorno. La voce fuori campo ci accompagna a vederne uno: in una bettola clandestina, entrano due uomini a volto coperto e sparano a un poliziotto. Cominciano le indagini. Sono rapide, sbrigative, i primi sospetti non hanno scampo, il processo per direttissima si chiude con due condanne a 99 anni.

Di anni ne passano undici. Nella pagina degli annunci economici del Chicago Times compare un trafiletto: offrono cinquemila dollari a chi fornirà notizie utili a far scarcerare uno dei condannati per quel delitto. Il caporedattore della cronaca (Lee J. Cobb) spedisce McNeal (James Stewart doppiato da Gualtiero De Angelis) a capirne di più. Il giornalista scopre che i dollari sono stati raggranellati da una donna anziana, che lava i pavimenti di notte ed è sicura dell’innocenza del figlio.

Esce un primo articolo. Ancora convinto della colpevolezza del condannato (Richard Conte), McNeal si reca in carcere a intervistarlo. Resta scettico, ma ha una pista. Gli articoli diventano due, tre, quattro; intorno all’innocenza di quell’uomo cresce un movimento di opinione, ma per ottenere la revisione del processo servono prove.

Nuovamente nei panni di un giornalista, Jimmy Stewart si cala in uno dei suoi ruoli più iconici. Opportunamente, lo si mostra incredulo, tutti i condannati si dicono innocenti, bisogna pensare anche alla famiglia della vittima… Ma il Chicago Times vende più che mai.

Classica pellicola sul “potere” del giornalismo nel risvegliare l’opinione pubblica. Notevole la scena del condannato che si sottopone alla macchina della verità, mentre la Polizia è indisponibile ad ammettere l’errore e mostra un volto omertoso. A enfatizzare l’impronta illuminista, la piena fiducia nella tecnologia: grazie a un’intuizione di McNeal, una vecchia fotografia offrirà la prova definitiva.

Subway – Luc Besson, 1985 – 7

È un poliziesco, questo? Anarchico, eclettico, autoironico, ecco il film che proiettò Besson nello star system. Che sia o meno una storia noir, ognuno interpreterà il finale come meglio crede.

Rivedendolo a tanti anni di distanza, prevale la fascinazione per gli estetismi del giovane regista: sequenze raffinate, complesse da realizzare, fini a se stesse o utili solo a farci pensare alla sua bravura; del resto, Subway fu uno dei primi film francesi a utilizzare la Steadycam.

Nella metropolitana parigina – labirinto pieno di scale, slarghi, binari, stanze segrete – si muovono uno scippatore che vola sui pattini (Jean-Hugues Anglade), un tipo baffuto che non si separa mai dalle bacchette della batteria (Jean Reno), un ladro dai capelli ossigenati (Christopher Lambert) che non sopporta le casseforti e si innamora di Hélèna (Isabelle Adjani). E appaiono altri ottimi attori francesi: Richard Bohringer, Michel Galabru, Jean-Pierre Bacri.

Dopo aver rubato documenti compromettenti (il contenuto resterà oscuro), l’ossigenato si rifugia nel sottosuolo (la gare d’Auber, sulla linea A della RER, fu la principale location), e mentre certi killer gli danno la caccia, inizia a corteggiare la moglie insoddisfatta di un importante uomo politico e poi si mette in testa di formare un gruppo rock con alcuni individui che bazzicano il metrò.

Del poliziesco troviamo certi stereotipi, annegati in dialoghi ermetici; per esempio, che significa aver smarrito il passaporto fra Calais e Saint-Tropez?

Oltre che con le parole, Besson gioca con il buio e i neon, ha idee originali su come trattare la musica (colonna sonora di Éric Serra, più una canzone di Rickie Lee Jones, A Lucky Guy). Per qualche anno, Lambert ha avuto grande successo, dividendo il pubblico: a parte Highlander e Greystoke, c’è chi l’ha sempre trovato inespressivo. In questo caso, prese il posto di Sting, prima scelta del regista e in ogni scena tiene la stessa espressione stralunata.

La notte dell’iguana [The Night of the Iguana] – John Huston, 1964 – 7

Dall’omonimo dramma di Tennessee Williams, sul palcoscenico tre anni prima, un film barocco e ridondante, che portò Dorothy Jeakins all’Oscar per i migliori costumi. Non meno brillante la fotografia in bianco e nero di Gabriel Figueroa.

Con la collaborazione di Anthony Veiller, e la costante presenza sul set del drammaturgo, Huston riuscì a consegnare alla MGM un drammone esotico, titanico, tormentato, scolpito sul senso di colpa, la tentazione, la repressione e l’espiazione. Sembra di sentirli gli effluvi dell’alcol e il clima torrido.

Sulla costa messicana, Richard Burton è Lawrence Shannon, ex reverendo alcolizzato, scacciato dalla sua parrocchia in Texas, dopo aver ceduto a una profferta sessuale, caduto in depressione e infine reinventato guida turistica. Nel gruppo di donne che porta in vacanza, Shannon fatica a respingere le avances della minorenne Charlotte (Sue Lyon proprio la Lolita di Kubrick). Ma ciò non basta a miss Fellowes (Grayson Hall), una nevrotica zitella che intende denunciarlo e farlo licenziare. Di lei, Shannon prova pena, consapevole dell’infelicità a cui la costringe una morale così proibitiva.

Il gruppo di villeggianti finisce in un hotel gestito da Maxine Faulk (Ava Gardner), appena rimasta vedova, e arriva lì anche Hannah (Deborah Kerr), quarantenne pittrice squattrinata che si muove insieme al vecchissimo nonno poeta, concentrato sui suoi ultimi versi.

L’ex reverendo è alla disperata ricerca di un nuovo equilibrio; lo attrae sia la serenità di Hannah (ancora vergine) che il vitalismo di Maxine, che a sua volta cerca compensazione alla mancanza di amore con il sesso “caliente” i due giovani messicani che lavorano per lei.

Il talento visivo e i movimenti di macchina di Huston non bastano ad alleggerire la verbosa teatralità di Williams. Meglio i personaggi della trama: Burton e la Gardner definiscono figure potenti, l’eterea Kerr non è da meno.

La costanza della ragione – Pasquale Festa Campanile, 1964 – 7

Co-produzione italo-francese, dall’omonimo romanzo di Vasco Pratolini, con Sami Frey (1937) e la ventenne Deneuve, appena uscita dal capolavoro di Demy, Les Parapluies de Cherbourg; nel cast anche Valeria Moriconi, Glauco Mauri, Andrea Checchi e Enrico Maria Salerno, nei panni di Millo.

Quello di Catherine è il primo nome sui titoli di testa, ma è Frey il vero protagonista. Figlio di immigrati polacchi di origine ebraica, deportati e uccisi ad Auschwitz, attore molto fascinoso, ha preso parte ad almeno una dozzina di film importanti. Sua la voce fuori campo: Bruno, giovane operaio fiorentino, ci fa sapere che è passato quasi un anno da quando era felice con Lori. Tramite una serie di flashback scopriremo com’è finita quella felicità.

Bruno aveva conosciuto Lori – figlia di un piccolo industriale – al ritorno da un anno passato da parenti a Milano (sembra un dettaglio, avrà una spiegazione drammatica). I due giovani si piacciono subito, cominciano a frequentarsi, parlano, ballano, si corteggiano con cautela, quasi paurosi di rovinare tutto. Oggi è domenica per noi, con la voce di Sergio Endrigo, è la canzone che li accompagna.

Bruno cova un sordo risentimento verso la società. Da bambino orfano di padre, morto in guerra, aveva trovato un punto di riferimento in Millo, operaio innamorato della madre Ivana. Crescendo, aveva cercato di impedire a Ivana e Millo di farsi una vita insieme. Dopo aver sparso un intransigente disprezzo su qualsiasi tipo di compromesso, arriverà a farsi ricevere da un prete per agevolare la tanto desiderata assunzione in fabbrica.

Anche Lori si rivela tormentata, ha paura di deludere Bruno, cova un segreto rovinoso, non trova la forza di svelarlo. Fatalmente, cade malata, la polmonite si aggrava, evolve in tubercolosi. I due innamorati si scambiano un giuramento che renderà il dolore più lancinante.

Di suo, Deneuve sprigiona un male di vivere, che la messa in scena fatica a motivare.

OUI, JE SUIS CATHERINE DENEUVE

La compagna di viaggio – Ferdinando Baldi, 1980 – 3

Statuaria, con i suoi lunghi capelli biondi, almeno un paio di volte Annamaria Rizzoli comparve sulla copertina dell’edizione italiana di Playboy, nel dicembre 1978 e nel maggio 1981, dove le si attribuiva “il più bel seno d’Italia”.

È lei la protagonista di questo filmetto scollacciato, insalvabile, dalla sceneggiatura inconsistente e dall’umorismo dozzinale, con personaggi banalissimi e futili pretesti per mostrare qualche nudità al pubblico adolescente dell’epoca. In prevalenza maschi, ma non solo: viene arruolato pure un culturista.

Vengono esibite le grazie della Rizzoli, di Serena Grandi, Marina Hedman (altrimenti nota come Marina Lotar e come Marina Frajese), Annie Belle (la più attraente), Marisa Mell (già Eva Kant in Diabolik) e per pochi secondi anche Moana Pozzi. Del cast fanno parte cabarettisti come Giorgio Bracardi (l’onorevole), Raf Luca (il capotreno), Pino Ferrara (lo psicanalista) e Loris Peota (Teodoro, alla prima notte di nozze). Con sprezzo del ridicolo, compare anche Gastone Moschin, uno degli “amici miei” e a suo tempo Jean Valjean in un magnifico sceneggiato. Doppiato da Marcello Tusco (chissà perché), Moschin interpreta il barone von Stroheim, capobanda che con il malloppo esaudirà il grande desiderio di Lilly (la Rizzoli): divenire una star del cinema.

Volendo, la si può definire una “commedia sexy”, ma trovo più appropriata l’etichetta di “B-movie ferroviario” che gli venne appiccicata. Viene da chiedersi se esistesse o no una sceneggiatura, le scene si susseguono in modalità random. Ingannevole la sequenza iniziale, il servizio fotografico nelle cascatelle di un ruscello, con la Rizzoli e la Pozzi seminude.

Abitavo ancora in un paese della “bassa” bolognese, in un giorno feriale i cartelloni pubblicitari stavano per convincerci a entrare: non lo facemmo, non so più se perché eravamo comunisti o preferimmo mangiare una pizza.

The Guilty – Antoine Fuqua, 2021 – 7

Sceneggiatura di Nic Pizzolatto, l’artefice di True Detective. Quasi un monologo teatrale.

Da solo, parlando al telefono, Jake Gyllenhaal regge quasi tutto il film. Una prova da attore simile a quella di Tom Hardy in Locke (Steven Knight, 2013), che viaggiava nottetempo in auto, accumulando motivi di tensione.

Gyllenhaal interpreta Joe Baylor, agente della polizia di Los Angeles coinvolto in una vicenda che ci verrà chiarita solo alla fine e nel frattempo “tolto dalla strada” e distaccato al 911, la linea telefonica delle emergenze. Oltre alle normali chiamate, Joe è inseguito da una giornalista del Los Angeles Times che insiste per avere una sua dichiarazione sull’udienza prevista il giorno dopo. Più avanti scopriremo che Joe è separato dalla moglie e ha una figlia piccola. Sulla metropoli incombe un gigantesco incendio, fiamme e fumo stanno creando innumerevoli problemi.

Nervoso, stanco, stressato, con cambi d’umore improvvisi e preoccupanti, quasi a fine turno Joe risponde alla chiamata di una donna in pericolo. Sia lui che il pubblico saranno portati a credere che Emily sia stata rapita dall’ex compagno, e abbia abbandonato due figli piccoli nell’appartamento in cui vive.

Agendo da poliziotto, abituato a situazioni di questo tipo, Joe comprende che Emily e l’uomo viaggiano sopra un furgone bianco, ma la California Highway Patrol non può localizzarli senza il numero di targa. Joe riesce a procurarselo, poi chiede a un amico poliziotto – a sua volta coinvolto nell’udienza del giorno dopo – di recarsi a casa di Emily, e di abbattere la porta per soccorrere i bambini. Al culmine della tensione, il protagonista e lo spettatore capiranno che le cose non stanno come sembrano. E sono persino più angoscianti.

Gli incendi ancora divampano, il 911 è oggetto di continue chiamate… Finirà in catarsi, con quel po’ di sollievo che può consentire di fare i conti con la propria coscienza: Joe si assumerà una colpa e ne pagherà il prezzo.

Radio Days – Woody Allen, 1987 – 8

Festività ebraica: i vicini di casa comunisti tengono troppo alto il volume della radio, infuriato lo zio Abe va a protestare, ma quando torna non fa che parlare di lotta di classe e della religione oppio dei popoli… Due ladri penetrano in una casa, è vuota, chi ci abita sta al cinematografo. Squilla il telefono. Un ladro non resiste alla tentazione di rispondere: a chiamare, in diretta, è il presentatore di un celebre quiz musicale, che chiede di indovinare tre motivi, suonati dall’orchestra. Il ladro ci riesce…

Verità o fantasia? Nel ricordo di Woody, sono due momenti degli anni d’oro della radio, due sketches legati dalla sua voce fuori campo, che compongono uno dei suoi film più malinconici e divertenti, dall’inimitabile tono autobiografico.

C’è stato un tempo in cui, almeno nelle famiglie piccolo-borghesi degli Stati Uniti, la radio costituiva il centro della casa, il focolare domestico: ognuno aveva le sue trasmissioni preferite, gli appuntamenti fissi, le fantasie sprigionate dalla scatola.

Santo Loquasto e Carlo Di Palma ricreano il mondo di Rockaway, nel Queens. Le musiche sono le più rappresentative di quegli anni: capolavori in serie. Woody non compare; il giovanissimo Seth Green incarna Joe, e noi vogliamo che Joe sia Woody. Del resto, l’autobiografismo è esponenziale, si tratta dell’unica pellicola in cui compaiono, non nella stessa scena, le due attrici, compagne, muse di Allen: Diane Keaton e Mia Farrow.

Sono gli anni che precedono Pearl Harbour e poi coincidono con l’entrata in guerra. Visti con gli occhi di un bambino, sono meravigliosi, pieni di scoperte sensazionali. Nulla di tragico, nemmeno i continui fallimenti di zia Bea, alla disperata ricerca dell’anima gemella.

Sfilano Danny Aiello e Jeff Daniels, Dianne Wiest e Tony Roberts; nei panni dei genitori di Joe, Julie Kavner e Michael Tucker (si amano, ma riescono a litigare anche sulla dimensione degli oceani); con la sua voce stentorea, il minuscolo Wallace Shawn è l’improbabile “Vendicatore Mascherato”.

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Il Passo del Diavolo [Devil’s Doorway] – Anthony Mann, 1950 – 7

Tornato dalla Guerra Civile – tre anni in Cavalleria – con il grado di sergente e la medaglia d’onore del Congresso, Freccia Spezzata (Robert Taylor, 39) entra nel saloon, rivede l’anziano amico del padre, ora sceriffo, e un avvocato tubercolotico e odioso, Verne Coolan, (Louis Calhern, 55). Vecchio e malato, il padre di Freccia Spezzata sa che presto morirà, e cerca di mettere in guardia il figlio, illuso che il razzismo sia finito con la guerra.

Freccia Spezzata è un bravo allevatore, al di là del “passo del Diavolo” c’è il suo pascolo, vende parte delle mandrie e versa in banca i dollari, ma all’improvviso il saloon gli nega il whisky: è pur sempre un pellerossa, e la sua terra attira l’attenzione di bianchi avidi e prepotenti, aizzati dall’avvocato tubercolotico.

La scazzottata nel saloon, con i suoi primi piani, è splendida, sporca e intensa, con i rumori giusti. Freccia ha ancora fiducia nella Legge, cerca un avvocato per far valere i suoi diritti. Trova la giovane Orrie Masters (Paula Raymond, 26): e il suo primo cliente, la madre rimprovera Orrie, con una clientela così non andrà da nessuna parte, ma lei segue l’integerrimo esempio del padre (le due sono venute dall’Est). Dunque, i protagonisti dovranno superare un doppio pregiudizio.

Fra i coloni bianchi ne vedremo di ottimi e di pessimi, l’odioso avvocato sobilla fino a rendere inevitabile la battaglia campale, nella quale Freccia Spezzata abbina le tattiche della guerriglia a ciò che ha imparato nell’esercito regolare.

Ben più a suo agio nei panni di Wilfred d’Ivanhoe o come corteggiatore di Greta Garbo, Hedy Lamarr e Ava Gardner, Taylor è truccato ai limiti del grottesco. Reduce da Giungla d’asfalto, Calhern si conferma perfetto negli scomodi panni dell’amorale, meschino e spietato. Oltre all’ottima regia e alla fotografia di George Alton, Devil’s Doorway si fa ricordare come una delle prime pellicole in cui le ragioni dei pellerossa siano tenute in qualche considerazione.

Un americano tranquillo [A Quiet American] – Joseph Leo Mankiewicz, 1958 – 8

Girato fra il Vietnam e Cinecittà, dal romanzo di Graham Greene rimaneggiato dallo stesso Mankiewicz, è un film di spionaggio annegato nel melodramma, con la componente esotica a enfatizzare ogni ambiguità e lontani echi dell’Otello di Shakespeare.

Audie Murphy è l’Americano, Michael Redgrave è il giornalista Thomas Fowler, Claude Dauphin fa l’ispettore Vigot, mentre a interpretare Phoung, una specie di geisha, sempre avvolta in abiti di seta, venne scelta una ventenne romana, Giorgia Moll (Godard la richiamerà per Il disprezzo).

Comincia a Saigon, con il Capodanno cinese del 1952, mentre è in corso la Guerra d’Indocina e i francesi vedono sfuggire di mano le loro colonie. Hitchcock potrebbe aver preso ispirazione dalla prima scena, l’inizio di Frenzy è molto simile.

Il cadavere è quello di un giovane americano, assassinato. Un cinquantenne giornalista inglese, Fowler, viene interrogato dal commissario francese: conosceva bene la vittima, tutti sanno che era affettuosamente legato a Phoung, la giovane vietnamita che per due anni era stata con Fowler.

Flashback: qualche mese prima, alla presenza di Fowler, c’era stato l’incontro fra Phoung e l’americano. Presto il gioco amoroso si era fatto esplicito: l’americano voleva sposarla, l’inglese non poteva, essendo già sposato. È una rivalità in punta di fioretto, da occidentali bene educati, l’americano è sempre gentile e “tranquillo”, salva la vita a Fowler, ma quando scopre che non avrà mai il divorzio, lo rivela alla vietnamita.

Phoung se ne va con l’americano, la cui presenza in Vietnam ha motivazioni poco chiare: Fowler lo ritiene coinvolto in una serie di attentati terroristici, alla guerra di liberazione si sovrappone una guerra civile, e in questo contesto il conflitto fra i due occidentali diventa mortale.

È Fowler, che intanto si costruisce un alibi, ad attivare la trappola per l’americano. Al poliziotto francese il compito di intuire quanto sia facile manipolare un uomo reso cieco dall’amore.

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