Fra gli innumerevoli film sulla politica americana, fra Casa Bianca, Congresso, Senato, lobbies, eccetera, ecco un prodotto che inseguiva l’originalità, finendo per smarrire il senso.
A sessantadue anni, è un Beatty tuttofare, regista, soggettista, sceneggiatore (insieme a Jeremy Pikser), nonché assoluto protagonista, nei panni di Jay Billington Bulworth. Può disporre della fotografia di Vittorio Storaro, dei costumi di Milena Canonero, delle musiche di Ennio Morricone, delle scene di Dean Tavoularis, ma tanta qualità tecnica non trova corrispondenza nel risultato finale.
Forse dipende dalla stranezza del casting: Halle Berry è la bella Nina, Don Cheadle fa il boss del ghetto, appaiono Paul Sorvino e Jack Warden, Richard Sarafian e Christine Baranski (la moglie del senatore, attenta solo a salvare le apparenze).
Stanno per svolgersi le Primarie in California e il senatore Democratico Bulworth ci viene mostrato in pieno esaurimento nervoso: non mangia e non dorme da giorni, è arrivato al punto da commissionare il proprio omicidio, ingaggiando un killer che non conosce e che eseguirà il contratto appena sarà garantita la copertura assicurativa da destinare alla figlia. Per motivi che lascio scoprire allo spettatore, Bulworth cambia idea, riprende la voglia di vivere, ma deve risolvere un problema: annullare il contratto con il killer.
Con il passare dei minuti, il tono del film accentua il grottesco, senza rendersi divertente; non escludo che sia uno di quei casi in cui la traduzione compromette molte battute e doppi sensi. Non vinse nulla, ma ebbe la nomination agli Oscar per la migliore sceneggiatura.
Con la prospettiva di una morte imminente, Bulworth comincia a distruggere i discorsi preparati dallo staff e pronuncia verità scandalose, indicibili (come Peter Finch in Quinto potere). Lo fa a tempo di rap, vestendosi come un rapper… Finale imperscrutabile: quando sembra che tutto si sistemi, si sente uno sparo…
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