Greta Garbo. La dame aux caméras, tradotto da Barbara Ferri, comincia così: «Era una tarda mattina del settembre 1951. Sul marciapiede di rue de Rivoli, lungo le arcate tra il Louvre e la Concorde, vidi due donne alte venire verso di me. Di colpo il viso di una catturò il mio sguardo. Quel viso? Quel vi…
Non ebbi il tempo di esitare: di fronte a me una signora si chinò verso il bambino che teneva per mano e, indicando col dito una delle due donne, gli mormorò all’orecchio alcune parole – probabilmente simili a quelle che un biografo attribuisce a una vecchia newyorkese che, durante una passeggiata al Central Park assieme al nipote, fece lo stesso incontro: «Vedi, Bobby, c’è sempre un buon motivo per uscire: si può incrociare Greta Garbo…».
Sì, era proprio lei, in compagnia, come seppi più tardi, della sua amica Cécile de Rothschild che la ospitava durante i suoi frequenti soggiorni a Parigi – erano passati dieci anni dalla sua rottura con Hollywood. Non portava né occhiali né cappello e teneva i capelli dalle lunghe ciocche chiare sciolti sulle spalle. Aveva uno sguardo marino. Ma per guardarla già dovevo voltarmi».
Già prima di quell’incontro folgorante, Lacouture (1921-2015) aveva maturato per Greta Garbo una tale venerazione, che lo spingerà a ricostruirne la parabola umana e artistica. Esperto in biografie (De Gaulle, Ho Chi Minh, Mitterrand), il giornalista francese insegue la Garbo dagli albori svedesi alla solitudine californiana, ne ricostruisce il modo di recitare, l’irrequietezza invincibile, e compone un ritratto dell’attrice attraverso testimonianze dirette, interviste e varie biografie.
“Per quanto eterea sembrasse, la bellezza della svedese era così carica di richiami erotici da distogliere e convogliare altrove le pulsioni di un adolescente quale ero io”. La fotogenia è misteriosa, moltiplica la seduzione.
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