Ophelia, detta “O” o “Multi-O” per la rumorosità dei suoi orgasmi, è una “appetitosa sciroccata”

Ophelia, detta “O” o “Multi-O” per la rumorosità dei suoi orgasmi, è una “appetitosa sciroccata”, secondo la definizione del patrigno Numero 6.

O intrattiene una relazione a tre con Ben e Chon, sul modello di quella fra Etta Place, Butch Cassidy e Sundance Kid. Siamo nell’Orange County, intorno a San Diego, non lontano dal confine con il Messico.

Ophelia al cinema è Blake Lively.

Oliver Stone ha diretto “Savages” dall’omonimo romanzo di Don Winslow, che ha collaborato alla sceneggiatura (per Einaudi: “Le belve”).

Quelle che una volta si chiamavano tattiche di guerriglia ora vengono definite “tecniche di guerra asimmetrica”. L’attività ufficiale di Lado, il killer messicano, è vendere attrezzi da giardinaggio; nel video del ricatto, accanto a O bendata, appare un’inquietante motosega.

La costanza della ragione – Pasquale Festa Campanile, 1964 – 7

Co-produzione italo-francese, dall’omonimo romanzo di Vasco Pratolini, con Sami Frey (1937) e la ventenne Deneuve, appena uscita dal capolavoro di Demy, Les Parapluies de Cherbourg; nel cast anche Valeria Moriconi, Glauco Mauri, Andrea Checchi e Enrico Maria Salerno, nei panni di Millo.

Quello di Catherine è il primo nome sui titoli di testa, ma è Frey il vero protagonista. Figlio di immigrati polacchi di origine ebraica, deportati e uccisi ad Auschwitz, attore molto fascinoso, ha preso parte ad almeno una dozzina di film importanti. Sua la voce fuori campo: Bruno, giovane operaio fiorentino, ci fa sapere che è passato quasi un anno da quando era felice con Lori. Tramite una serie di flashback scopriremo com’è finita quella felicità.

Bruno aveva conosciuto Lori – figlia di un piccolo industriale – al ritorno da un anno passato da parenti a Milano (sembra un dettaglio, avrà una spiegazione drammatica). I due giovani si piacciono subito, cominciano a frequentarsi, parlano, ballano, si corteggiano con cautela, quasi paurosi di rovinare tutto. Oggi è domenica per noi, con la voce di Sergio Endrigo, è la canzone che li accompagna.

Bruno cova un sordo risentimento verso la società. Da bambino orfano di padre, morto in guerra, aveva trovato un punto di riferimento in Millo, operaio innamorato della madre Ivana. Crescendo, aveva cercato di impedire a Ivana e Millo di farsi una vita insieme. Dopo aver sparso un intransigente disprezzo su qualsiasi tipo di compromesso, arriverà a farsi ricevere da un prete per agevolare la tanto desiderata assunzione in fabbrica.

Anche Lori si rivela tormentata, ha paura di deludere Bruno, cova un segreto rovinoso, non trova la forza di svelarlo. Fatalmente, cade malata, la polmonite si aggrava, evolve in tubercolosi. I due innamorati si scambiano un giuramento che renderà il dolore più lancinante.

Di suo, Deneuve sprigiona un male di vivere, che la messa in scena fatica a motivare.

OUI, JE SUIS CATHERINE DENEUVE

Beba Loncar, Silvia in “Ho incontrato un’ombra”

Al tempo di Ho incontrato un’ombra, Beba Loncar aveva trent’anni.

Pseudonimo di Desanka Lončar, croata di Belgrado, nata il 28 aprile 1943, cominciò a recitare giovanissima e nel ’64 apparve in La donna è una cosa meravigliosa, regia di Mauro Bolognini. Del 1965 sono Slalom, regia di Luciano Salce, e Casanova ’70 per Mario Monicelli; l’anno dopo, Pietro Germi le assegnò un ruolo importante in Signore & signori.

Nel 1969 apparve in Cuore di mamma di Salvatore Samperi. Nel 1970 Monicelli la volle in Brancaleone alle crociate nel ruolo della principessa Berta d’Avignone, finta lebbrosa diretta in Terrasanta. Ebbe poi una parte in La ragazza dalla pelle di luna (di Luigi Scattini) e interpretò film di genere boccaccesco come Decameron nº 3.

La sua popolarità fu rilanciata da pubblicità su Carosello: nel ‘72 per il sapone Camay della Procter & Gamble, e nel ‘76 per il liquore Vov della Sili. Appariva spesso in programmi televisivi, da ospite o conduttrice.

Il grande peccatore [The Great Sinner] – Robert Siodmak, 1949 – 6

Ispirato a Il giocatore, il romanzo di Dostoevskij (1867), sceneggiato da Christopher Isherwood con scenografie di Cedric Gibbons (immancabile nei film della Garbo), è il classico drammone di ascesa e caduta, imperniato sulla malattia del gioco e sui suoi tragici effetti. Nel passare in pochi istanti dall’esaltazione all’umiliazione, le carte e la roulette sprigionano un’attrazione irresistibile, più forte e rovinosa dell’amore.

Wiesbaden, celebre stazione termale a metà dell’Ottocento: lei ci è arrivata per il casinò, lui stava recandosi a Parigi ma l’ha vista sul treno e d’impulso ha deciso di seguirla. Lei è Pauline, figlia di un generale russo, lui è Fedja, scrittore in cerca di ispirazione. Da principio è lei preda della malattia, incurante delle conseguenze. Per quanto affascinato, lui non esita a dirle: “Corrotta, viziosa, insoddisfatta e vuota… Il fascino, mia cara, è il vostro capitale, lo gettate sul tavolo come un gettone”. Immediata la replica: “Se un uomo si permette di essere brutale con una donna, vuol dire che si sta innamorando di lei”.

Piena di debiti, Pauline pare destinata a sposare Armand, il capo del casinò (Melvyn Douglas, ovviamente innamorato di lei), per una sorta di risarcimento che salverà la reputazione degli Ostrovskij. L’incontro con Fedja cambia tutto. Vedremo l’allegra ambiguità del padre generale (Walter Huston) e la fatale intransigenza della capofamiglia, la nonna (Ethel Barrymore), che a sorpresa si presenta a Wiesbaden, si fa prendere dalla febbre del gioco fino a perdere tutto. È Agnes Moorehead, prediletta da Welles, a interpretare l’odiosa usuraia da cui Fedja torna ripetutamente, prima per riscattare oggetti preziosi, poi per impegnare fino all’ultima immagine sacra.

Intorno alla follia del giocatore, passando dalle vette agli abissi, Fedja trova l’ispirazione letteraria. Ha visto un uomo suicidarsi, medita di imitarlo. Ma sarebbe un peccato per una così bella coppia…

Dello sceneggiato RAI del 1965 avevo scritto qui.

La calda pelle [De l’Amour] – Jean Aurel, 1964 – 6

Liberamente tratto da Dell’amore (1822) di Stendhal, sceneggiato da Cécil Saint-Laurent e dallo stesso Aurel – all’anagrafe Aurel Kupferman, di origini rumene – che fu regista (ricordo Manon ’70 e Les Femmes) ma soprattutto scrittore di cinema: suoi gli script di Il buco (Jacques Becker, 1960) e di alcuni fra gli ultimi film di Truffaut: L’amore fugge (1979), La signora della porta accanto (1981) e Finalmente domenica! (1983).

In questa pellicola in bianco e nero, si incrociano, districano e separano tre donne – Hélène (Anna Karina), Mathilde (Elsa Martinelli) e Sophie (Joanna Shimkus) – e tre uomini – Raoul (Michel Piccoli), Antoine (Jean Sorel) e Serge (Philippe Avron).

Assistendo a un litigio fra Raoul e Hélène, Serge decide di avvicinare la ragazza. Le tecniche di corteggiamento sono rappresentate dalla voce off come round di pugilato, Serge sembra prevalere, poi commette errori e appare spacciato, infine trionfa quando meno se lo aspetta.

Sophie è una delle tante, per Raoul, un dentista che osserva e classifica le sue pazienti e a volte decide di conquistarle: a certificare i suoi successi, innumerevoli super8, tenuti in un armadio e mostrati alla donna successiva. Ma anche Sophie non è esattamente fedele: sposata e divorziata da Antoine, un giorno si fa accompagnare da Raoul sotto casa di un’amica malata (a lui dice così) e poi sale e fa l’amore con l’ex marito, che nel frattempo attendeva un’altra (sembra Innocenti evasioni di Battisti).

Per consolarsi o per riaffermare il suo dongiovannismo, Raoul comincia a corteggiare Mathilde. L’interpretazione di Elsa Martinelli è quella che mi è rimasta più impressa: Mathilde è il più autentico frutto della rivoluzione sessuale in atto, è lei che va alla conquista, senza alcun falso pudore.

Il saggio di Stendhal, le sue riflessioni sulle varie tipologie dell’amore, viene così piegato a commento della sessualità borghese – o almeno parigina – degli anni Sessanta.

Criminal Story – Claude Chabrol, 1967 – 6

Al Pireo, il porto di Atene, al volante di una stravagante automobile sta un certo Socrates, illusionista e prestigiatore. Al controllo doganale, lo arrestano: accanto a conigli e colombe, viene trovata una piccola scatola nera. Brutalmente interrogato, confessa trattarsi di un dispositivo elettrico che emana un segnale in grado neutralizzare il sistema radar delle navi circolanti nel Mediterraneo, e poi inghiotte una pastiglia di cianuro.

Le autorità greche vengono scavalcate dalle agenzie di spionaggio. A capo dei servizi segreti americani in recia è Sharps (Michel Bouquet), un tipo antipaticissimo, sempre vestito di bianco, che si finge gestore di un negozio di dolciumi a Corinto, e comanda una piccola squadra formata da Robert (Cristian Marquand) e Dex (Maurice Ronet). A fine missione, Robert sposerà Shanny (Jean Seberg), che l’ha appena raggiunto in Grecia; sia Dex che Sharps erano innamorati di Shanny, e sperano di riconquistarla.

Da un soggetto di Claude Rank, sceneggiato da Daniel Boulanger e Claude Brulé, con musiche tipicamente elleniche orchestrate da Pierre Jansen: ci sono killer e morti ammazzati, ma l’atmosfera resta elegiaca, giocosa, parodistica. Ogni cadavere viene presto omaggiato con un fiore.

Sarà Shanny a sbrogliare il complotto, ma lo spettatore preferirà guardarla, nella sua incommensurabile, affascinante fotogenia, piuttosto che seguire una trama scombinata, nella quale si ritaglia uno spazio lo stesso Chabrol, nei panni di Alcibiades, che per mille dollari vende informazioni sull’organizzazione criminale, che si cela dietro un laboratorio di marmista. La comanda Khalides, interpretato da Saro Urzì.

Sharps resterà infido e ambiguo fino alla fine, mentre Dex aiuterà Shanny e la riconquisterà: o almeno è quello che sembra alla pattuglia di preti ortodossi, tutti vestiti di nero, a bordo dell’aereo che decolla verso l’America. Nel profondo nero, spiccano le macchie di colore degli amanti.

Diabolicamente tua [Diaboliquement vôtre] – Julien Duvivier, 1967 – 6

 

Senta Berger a ventisei anni, Alain Delon a trentuno, lei in sottovesti vaporose e abitini fascianti, lui in kimono o seminudo per metà del film. Due sex symbol per distrarre lo spettatore dalle più vistose incongruenze della trama.

Coadiuvato dalla fotografia di Henri Decaë e dal montaggio di Paul Cayatte, alla sua ultima regia, il settantenne Duvivier imbastisce una trama che sembra reggere finché restano oscuri i termini del complotto. Poi la sceneggiatura – tratta da Manie de la persécution, di Louis C. Thomas – comincia ad arrotolarsi su se stessa, imbroglia le carte, ipotizza varie vie d’uscita e si chiude con un guizzo finale, che lascerà perplessi gli spettatori più attenti.

Dopo un incidente stradale, un uomo si risveglia in ospedale senza ricordare nulla. Non riconosce nemmeno la meravigliosa moglie Christiane, che lo riporta a casa con l’aiuto di un amico dottore che lo curerà e gli farà tornare la memoria. Gli dicono che si chiama Georges Campo, ma continua nella sua amnesia, turbata da sogni che lo spingono al suicidio… Che può fare un uomo che ha perso la memoria e scopre di essere sposato con una donna bellissima e ricchissima? Inevitabile che stia al gioco, anche se la devota sposina non gli si concede fin quando non starà davvero bene, e il medico di famiglia porta occhiali neri che certificano un ovvio attestato di colpevolezza. La figura di Kim, il cameriere (e massaggiatore) cinese, sembra custodire i peggiori segreti.

Il medico gli prescrive riposo e psicofarmaci, finché arriverà il momento in cui il protagonista smette di assumerli. Lo spettatore aspetta che gli spieghino perché qualcuno vuole eliminare un uomo a cui, intanto, è stata offerta la più facile agiatezza.

La pellicola gronda sensualità repressa, la Gendarmeria francese non ne esce benissimo, ma al 90% del pubblico il finale non dispiacerà. Tanta sfolgorante bellezza può negare l’equazione secondo la quale il delitto non paga.

 

#Garbo. Anna Christie – Clarence Brown, 1930 – 7 (con l’intromissione di Hemingway)

Garbo Talks!, fu lo slogan: la Garbo parla, ecco l’evento. Il suo esordio nel nuovo cinema, dopo 13 film muti.

East River, una serata nebbiosa nella baia di New York: una coppia di anziani, un uomo e una donna mezzi ubriachi (George F. Marion e Marie Dressler), scende da un barcone ed entra in una bettola per bersi un altro bicchiere. All’uomo viene consegnata una lettera, è di sua figlia Anna, che non vede da 15 anni.

Il padre se l’immaginava a St. Paul, Minnesota, a fare la bambinaia. Anna gli scrive che arriverà presto, il vecchio ubriacone è contento, ma dice alla vecchia amica, Marthy, che non permetterà mai che sposi un marinaio.

Al minuto 15 e 14 secondi, appare Anna, dopo altri quindici secondi apre bocca:

Gif me a wiskey, ginger ale on the side, and don’t be stingy, baby”.

Nella versione italiana, è la doppiatrice Rita Savagnone a scandire: “Portami un whisky, e qualcosa per allungarlo… e bada alla porzione, piccolo”.

Il barista replica: Te lo servo in un secchio?

E lei: Ecco, è proprio quello che ci vorrebbe”.

Nel passato di Anna c’è una violenza: l’ha subita da un parente, poi ha conosciuto tanti uomini. Li odia tutti. Così come il padre odia il mare (“il vecchio demonio”).

Anna sale a bordo. La chiatta parte verso nord. Una notte sono investiti da una tempesta, sentono un grido, raccolgono tre marinai stremati. Uno di loro, Matt (Charles Bickford), mostra subito un certo interesse verso quella giovane donna.

Lui la idealizza, la crede pura (le offre del latte, nemmeno una birra). In una lunga, lenta, statica scena teatrale, nella cabina della chiatta, Anna dice a Matt di amarlo ma di non potere sposarlo. Inevitabile spiegare che vita ha fatto, cosa le hanno fatto gli uomini…

Visti i disastrosi precedenti di altri-divi del muto, alla MGM erano molto preoccupati, la Garbo aveva un forte accento svedese, la protagonista venne perciò definita come un’americana di origini svedesi. La Garbo venne nominata agli Oscar, ma a vincerlo fu Norma Shearer, moglie di Irving Thalberg.

La capitale del mondo (Ernest Hemigway, 1936)

Paco veniva da un paesino sperduto e sottosviluppato dell’Estremadura, faceva l’apprendista cameriere grazie alle due sorelle che già lavoravano da anni a Madrid. All’albergo Luarca risiedevano sei toreri: due picadores, un banderillero e tre matadores. Di questi, “uno era ammalato e faceva del suo meglio per nasconderlo, uno aveva già superato il suo breve momento di gloria e il terzo era un codardo” (lo era divenuto in seguito a una cornata molto dolorosa).

Paco idolatrava i toreri, avrebbe voluto essere un torero, si divertiva a imitarne i movimenti. Un altro giovane cameriere gli dice che non saprebbe farlo, per il “miedo” (la paura): “Se non fosse per la paura, tutti i lustrascarpe di Spagna farebbero i toreri”. Ma Paco non ci sta, afferma di non provare paura e si presta a un gioco pericoloso: l’altro cameriere lega due affilati coltelli alle gambe di una sedia e nella grande sala da pranzo deserta, i due ripetono i movimenti dell’arena. È notte. Paco sbaglia un movimento per cinque centimetri e viene infilzato dal coltello: “Un’arteria femorale recisa si vuota più in fretta di quanto si possa immaginare”.

Mentre Paco muore, le due sorelle sono al cinema a vedere Greta Garbo in Anna Christie, il primo film sonoro della diva. Quel film deluse tutti, a Madrid, comprese le due sorelle di Paco, perché la Garbo stava “in un ambiente squallido e miserabile, mentre loro erano abituate a vederla in mezzo al lusso e alla magnificenza”.

La Chamade – Alain Cavalier, 1968 – 7

Dal suo romanzo omonimo (1965), Françoise Sagan trae la sceneggiatura; Catherine Deneuve è Lucile, Michel Piccoli è Charles; Irène Tunc e Roger Van Hool interpretano Irène e Antoine. Di Yves Saint-Laurent gli abiti della Deneuve. Siamo all’immediata vigilia del Sessantotto, ma questa alta borghesia parigina non lo sente arrivare.

All’alba, Lucile si sveglia e, nella sua meravigliosa sottoveste, va a recuperare le pantofole nella stanza di Charles, con cui vive da tre anni. Di anni, Lucile ne ha venticinque, Charles quasi il doppio. Lucile si veste, sale sulla sua decapottabile e corre per strada. Felice. O almeno spensierata. Qualche ora dopo, la ritroviamo accanto a Charles, ricco industriale, nel parco della villa di amici facoltosi, dove fa la conoscenza di Antoine, l’amante della ricca Irène, un trentenne che lavora presso una casa editrice. I due cominciano a frequentarsi segretamente.

La leggerezza, ai limiti della vacuità, nell’affrontare il presente è all’origine del fascino di Lucile: solo Deneuve poteva renderla alla perfezione. Al contrario, la bellezza di Van Hool arriva banale, stereotipata. Sempre sicuro di sé, Charles conosce il panico quando si accorge dell’intensità del nuovo legame di Lucile. Ma lei è incerta, le piace vivere in quell’ambiente sofisticato, frivolo, nemmeno quando Antoine lascia Irène, lei sa decidersi. Lascerà la casa di Charles in lacrime, abbracciata alla cameriera, per trasferirsi in un monolocale pieno di libri.

La felicità di Lucile coincide con l’estate. Già in autunno, per recarsi al lavoro che Antoine le ha procurato (l’archivio di una rivista), Lucile deve salire su autobus affollati e alla sera è così stanca che immerge i piedi in un catino di plastica, con acqua e sale. Impegna i pochi gioielli che ha portato con sé. Presto non ce la fa più, si licenzia, senza dirlo ad Antoine: quando lo scopre, le dà uno schiaffo… Finale sconfortante (ripeto, è il 1968 a Parigi): “chamade” può tradursi come “disfatta” o “resa”.

Oui, Je Suis Catherine D.

Foxy Brown – Jack Hill, 1974 – 7

Seno scultoreo, camicetta sgargiante, pantaloni attillati, pettinatura afro, la pistola fermata di lato nel reggiseno: ecco Pam Grier, reduce da Coffy. Non proprio un sequel, ma quasi: di Hill (un bianco) soggetto e sceneggiatura.

In ospedale, dove è andata a trovare il suo uomo, Foxy amoreggia impudicamente. Lui è un agente della Narcotici sotto copertura, reduce da un intervento di plastica facciale per renderlo irriconoscibile agli spacciatori. Ma Link (Antonio Vargas), il fratello di Foxy, è un nero senza alcuna morale: riconosce il poliziotto e per un paio di dosi lo vende ai trafficanti, l’amato muore fra le sue braccia e la vita di Foxy Brown cambia.

“Voi occupatevi della giustizia, io mi occuperò della vendetta”, dirà a un gruppo di Pantere Nere, il “comitato di fratellanza” chiamato a portare a termine la sua missione. Black Is Beautiful sta scritto sopra la loro porta.

Sesso e violenza, droga e bondage, mutilazioni e risse tra lesbiche… A capo dei malvagi, stavolta, è una donna bianca (l’attrice Katherine Wall), viziosa e scellerata. Il narcotraffico si cela dietro un’agenzia di escort, l’avvenenza non manca a Foxy, che cambia pettinatura e si presenta con lunghi capelli sciolti (nelle ultime scene tornerà afro, vestita di pelle). Il primo cliente è un detestabile, anziano giudice (bianco): il tono diventa grottesco, il cinema di Russ Meyer mi sembra il primo punto di riferimento, e si sa che Tarantino ha visto questi film decine di volte (oltre alla protagonista, anche la sigla psichedelica ricomparirà in Jackie Brown).

Drogata e rinchiusa in un ranch (mi ha fatto pensare a Quel bastardo giallo di Frank Miller), nelle mani di due depravati bianchi, Foxy subisce ogni sorta di violenza, finché riesce a impossessarsi di una lametta… Del ranch e dei due carcerieri resterà solo cenere.

Colonna sonora di Willie Hutch, prodotta dalla Motown Records. Il pubblico apprezzerà la tremenda vendetta, condita da un vasetto di sottaceti.

Coffy – Jack Hill, 1973 – 7

“Dimmi se sono il tipo di ragazza a cui può bastare un uomo solo”, dice Coffy al repellente grassone con biancheria rosa, prima di puntargli contro un fucile a canne mozze e fargli esplodere la testa.

Pettinatura afro e curve esplosive, Coffy è decisa a vendicare la sorellina quindicenne, tramortita e chiusa in un centro di recupero per tossicodipendenti. Nella scena successiva, vediamo Coffy in sala operatoria, nei panni di infermiera.

Presto scopriremo quanto le piace il sesso. Monogama, il suo uomo è un deputato nero in rapida ascesa, a Los Angeles, grazie a un’efficace retorica (però risulta subito antipatico, e questo vorrà dire qualcosa). Coffy rivede un vecchio amico poliziotto, che è sempre stato innamorato di lei, e costui viene trucidato davanti ai suoi occhi da brutali spacciatori. Per vendicarlo, Coffy si traveste da prostituta d’alto bordo, si finge giamaicana e assume un nome d’arte: Mystic. È così bella che non può sfuggire alla lussuria di King George, un pappone afroamericano che indossa abiti sgargianti, e suscita l’invidia delle nuove “colleghe”: nella rissa che ne segue, Coffy sa come difendersi (fra l’altro, nasconde lamette affilate fra i capelli).

La sua è una missione molto pericolosa, e cade in trappola. Il gangster è un bianco pervertito di origini italiane, e il suo socio è proprio quel parolaio deputato afro. Picchiata, rinchiusa, drogata, gli aguzzini la desiderano e continuano a sottovalutarla. Coffy non ha paura di niente: con la sua prorompente sensualità, Pam Grier si impose come l’eroina black per eccellenza, in una produzione American International Pictures distribuita da MGM (milioni di afroamericani vennero attirati al cinema).

Blaxploitation, l’hanno chiamata, e questa è una pietra miliare. A capo dei cattivi ci sono sempre dei bianchi (più o meno feroci) e quasi tutti i poliziotti sono razzisti e corrotti, ma non mancano i neri spregevoli (papponi e spacciatori). Pur ammaccata, Coffy riesce a fare giustizia a modo suo. Seguirà Foxy Brown.

Oui, Je Suis Catherine D. (26 film)

Ottantesimo compleanno… Ripropongo il post che ricavai dalla lettura della sua autobiografia: All’ombra di me stessa (Sperling & Kupfer, 2005).

Per Catherine Deneuve, la Mostra del Cinema di Venezia rimanda al Leone d’Oro del 1967, attribuito a Bella di giorno, e la Coppa Volpi come miglior attrice nel 1998 per Place Vendôme; ma già nel 1964, la mostra veneziana era stata illuminata dalla ventunenne scelta da Jacques Demy per Les parapluies de Cherbourg.

Nata a Parigi il 22 ottobre 1943, ha preso parte a oltre cento film. Su questo blog, ho già scritto di questi: La costanza della ragione (Festa Campanile, 1964) – La Chamade (Cavalier, 1968) – Codice d’onore (Corneau, 1981) – Potiche (Ozon, 2010) – Le Sauvage (Rappeneau, 1975) – Anima persa (Risi, 1977) – Place Vendôme (Garcia, 1998) – Non toccate la donna bianca (Ferreri, 1974) – Manon ’70 (Aurel, 1968) – Fatti di gente perbene (Bolognini, 1974) – Tristana (Bunuel, 1970) – Appuntamento con l’assassino (Pirés, 1975) – La verità (Kore-eda, 2019) – Notte sulla città (Melville, 1972) – Les parapluies de Cherbourg (Demy, 1964) – Joséphine. Le Demoiselles de Rochefort (Demy, 1967) – Bella di giorno (Bunuel, 1967) – 8 donne e un mistero (Ozon, 2002) – L’ultimo metrò (Truffaut, 1980) – Miriam si sveglia a mezzanotte (Scott, 1983) – D’Artagnan (Hyams, 2001) – Sento che mi sta succedendo qualcosa (Rosenberg, 1968) – Dio esiste e vive a Bruxelles (van Dormael, 2015) – La cagna (Ferreri, 1972) – L’erba cattiva (Kheiron, 2018) – Due prostitute a Pigalle (Szabo, 1974) –

Oui, je suis Catherine Deneuve” era il claim pronunciato dall’attrice non ancora quarantenne, nel 1982, in un celebre spot per la Lancia Delta LX. Classico caso in cui l’oggetto della pubblicità scompare e rimane solo il testimonial.

La #Garbo secondo Barthes

«La Garbo appartiene ancora a quel momento del cinema in cui la sola cattura del volto umano provocava nelle folle il massimo turbamento, in cui ci si perdeva letteralmente in un’immagine umana come in un filtro, in cui il viso costituiva una specie di stato assoluto della carne, che non si poteva raggiungere né abbandonare. […] Non è un viso dipinto, è un viso intonacato, difeso dalla superficie del colore e non dalle sue linee. […] La Garbo offriva una specie di idea platonica della creatura, e ciò appunto spiega come il suo viso sia quasi asessuato, senza per questo essere equivoco [In La regina Cristina], la Garbo non si impegna in nessun esercizio di travestimento; è sempre se stessa, sotto la corona o sotto i grandi feltri abbassati porta senza finzione lo stesso viso di neve e di solitudine. Il suo appellativo di Divina mirava indubbiamente a rendere, più che uno stato superlativo della bellezza, l’essenza della sua persona corporea, scesa da un cielo dove le cose sono formate e finite nella massima chiarezza. […] Il volto della Garbo rappresenta quel momento fragile in cui il cinema sta per estrarre una bellezza esistenziale da una bellezza essenziale. […] Il volto della Garbo è Idea, quello della Hepburn è Evento».

Roland Barthes, Miti d’oggi, 1957

Hedy Lamarr, vita e film

Hedy Lamarr 1913-2000

HEDY LAMARR, 1913-2000

Estasi (Gustav Machaty, 1934) – La febbre del petrolio (Jack Conway, 1940) – Corrispondente X (King Vidor, 1940) – Vieni a vivere con me (King Vidor, 1941) – Schiava del male (Jacques Tourneur, 1944) – Venere peccatrice (Edgar Ulmer, 1946) – Le frontiere dell’odio (John Farrow, 1950)

Bombshell. The Hedy Lamarr Story (Alexandra Dean, 2017)

Hedy Lamarr, la donna gatto (Edoardo Segantini, Rubbettino, 2011)

Il Doodle di Google (9 novembre 2015)

Giornalisti al Cinema 295Covers. Screen Stars 1944Smoke 66Chimica delle coppie 59: Mac e Lizzie

All’ultimo respiro [Breathless] – Jim McBride, 1983 – 6

Indifendibile, per aver osato rifare uno dei manifesti della Nouvelle Vague strizzando l’occhio al pubblico con due sex symbol: Richard Gere, con un paio di secondi di nudo integrale, sulle note di Suspicious Minds di Presley, e Valérie Kaprisky, con le sue curve a prova di forza di gravità.

Chiassoso ed egocentrico, Jesse Lujack è un ladruncolo specializzato in furti d’auto: ha una donna diversa ogni sera, finché, in un weekend a Las Vegas, perde la testa (e il respiro) per Monica Poiccard, francesina che studia Architettura a L.A.; nel correre a ritrovarla, supera ogni limite di velocità, la polizia lo bracca, nell’auto rubata Jesse trova una pistola, e spara.

Gere offre la sua interpretazione più esagitata, sempre sopra le righe, ma non manca qualche scena ipnotica, quando lei si limita a muoversi e non parla.

Non funziona il cast e nemmeno l’inversione dei fattori: in Fino all’ultimo respiro, c’erano Parigi, un francese e un’americana (Belmondo e Jean Seberg); in Breathless si ci sono la West Coast, un americano e una francese. Mentre Belmondo citava Bogart e Cagney, Gere ha il mito di Jerry Lee Lewis (la colonna sonora contiene anche Breathless). Come nell’originale, si arriva al punto in cui lei cita Faulkner – “Fra il dolore e il nulla, io scelgo il dolore” – per chiedere a lui cosa farebbe. McBride aggiunge un omaggio a un noir sanguinario, Gun Crazy.

Ricordo una recensione che stroncava il remake, definendolo “incesto cinematografico”. In effetti, il film è spesso irritante ma, per una di quelle magie inspiegabili e non così rare nel buio di una sala, il kitsch diventa attraente.

Jesse legge le avventure a fumetti di Silver Surfer, quelle mitiche dei primi anni Sessanta, scritte da Stan Lee e disegnate da Jack Kirby e John Buscema. Purtroppo, McBride esagera nell’evocare similitudini fra il lirico surfista d’argento e questo strafottente ladruncolo innamorato.

Manon ‘70 – Jean Aurel, 1968 – 7

 

Difficile trovare le parole per descrivere l’irraggiungibile “aura” – bellezza, eleganza, fascino, sex appeal – di Catherine Deneuve a venticinque anni. Facile capire come sia stata identificata per rinnovare il mito di Manon Lescaut. E provare a farlo nel Sessantotto, quando la rivoluzione sessuale e la sua premessa – la liberazione della donna – avrebbero dovuto rendere anacronistico, quasi insensato, un romanzo di 237 anni prima, tutto scritto dal punto di vista di lui.

Manon è l’archetipo della “mantenuta”. Leggera e disinibita, usa gli uomini, desidera fare una bella vita e non esita a procurarsela. Si innamora di François (Sami Frey), un giornalista incrociato in aeroporto, che perde la testa per lei. Ne deriva un sentimento tempestoso, vissuto diversamente: lui pretende la fedeltà, lei afferma che l’unica che abbia senso sia l’amore. Per una donna, dice, la fedeltà fisica è irrilevante.

Come nel romanzo dell’abate Prévost, fra loro si insinua il fratello di Manon (Jean-Claude Brialy), opportunista all’ennesima potenza. Sa che ci sono tanti uomini disposti a pagare per possedere Manon, e cerca di convincere François a sfruttare la situazione. In fondo, si tratta solo di affari… Lo stile di vita di questa giovane donna è edonista e avventuroso: “Nessuno mi può giudicare” cantava in quegli anni Caterina Caselli.

Del cast fanno parte anche Elsa Martinelli e Robert Webber. Il regista aveva collaborato con Truffaut, e pare inseguirne il tocco. Deneuve veniva da un ruolo con qualche similitudine (Buñuel, Bella di giorno) tratto da uno scandaloso romanzo di Joseph Kessel. E il cerchio si chiude con Truffaut che la chiama per un terzo ritratto di femme fatale, La Sirène du Mississipi, accanto a Belmondo, da un racconto di Cornell Woolrich.

Non fosse un bel tenebroso abituato a dominare le donne, anziché inseguirle, si potrebbe provare pietà per Sami Frey, con la sua pretesa di possesso esclusivo. D’accordo, concede Manon: “Sarà un inferno, ma tu l’avrai voluto”.

#Garbo. Queen Christina [La regina Cristina] – Rouben Mamoulian, 1933 – 8

Greta Garbo interpreta la regina di Svezia, salita al trono a sei anni, nel 1632, mentre infuriava una lunga guerra. È uno di quei film che acquistano valore quando si arriva a cogliervi indizi di un’implicita autobiografia della protagonista.

Fotografia di William Daniels, montaggio di Blanche Sewell, scenografia di Alexander Toluboff, costumi di Adrian. Fu la Garbo a scegliere questo copione, e sempre lei volle imporre John Gilbert, ormai ai margini del cinema sonoro, ricostruendo per la quarta e ultima volta la più celebre coppia romantica della MGM.

Unica figlia di Gustavo Adolfo, morto in battaglia, la bambina viene cresciuta dal lord cancelliere (la solita “spalla”, Lewis Stone), diventa un’abile cavallerizza, abituata a portare abiti maschili e un corto taglio di capelli. Figura androgina, ha come dama di compagnia una contessa (Elizabeth Young), che bacia appassionatamente sulla bocca, e non intende sposare il cugino, eroe di guerra.

Mentre cavalca su piste innevate, incrocia la carrozza con il diplomatico spagnolo atteso a corte. Non viene riconosciuta, l’ambasciatore le offre una mancia per il suo aiuto. Arrivata in una locanda, sempre in incognito, prende l’ultima stanza rimasta, e subito dopo arriva la delegazione spagnola… La sospensione dell’incredulità è spesso necessaria, al cinema, ma come possa questo don Antonio de la Prada non riconoscere una donna (anzi, la Garbo a ventotto anni) oltrepassa ogni soglia accettabile.

“In voi c’era qualcosa di strano, lo sentivo”, dice Antonio, appena la vede un po’ svestita. Bloccati dalla neve, per tre giorni e tre notti restano chiusi in quella stanza… Cristina intuisce che fuori da lì non potrà ritrovare l’amore e la felicità che ha appena conosciuto. In una sorta di estasi, tocca ogni oggetto per imprimerselo nella memoria, non vuole dimenticare quei giorni d’amore vissuti come una donna qualunque… Un lento zoom chiude il film sul più intenso dei suoi primi piani. Enigmatico, quasi profetico.

Corrispondente X [Comrade X] – King Vidor, 1940 – 7

Ninotchka è di pochi mesi prima: Lubitsch e la Garbo avevano composto un capolavoro, che la MGM provò a replicare con gli stessi ingredienti. Purtroppo, Vidor non vale Lubitsch, ma il nuovo soggetto è firmato Walter Reisch e sceneggiato da Ben Hecht, Charles Lederer e Herman J. Mankiewicz; identici lo scenografo e il costumista, Cedric Gibbons e Adrian; nel cast, Oskar Homolka (Sabotaggio, di Hitchcock) e Felix Bressart (già in Ninotchka).

All’epoca, la seconda star della MGM era Hedy Lamarr, dalla bellezza luminosissima, quasi sempre coinvolta in pellicole modeste. Come partner, ecco Clark Gable: la chimica fra i due è più convincente di quella fra Gable e Garbo ai tempi di Susan Lenox (Cortigiana, 1931), ma quando vedo Gable, con la sua faccia da schiaffi, sbruffone e donnaiolo, mi vien da replicare quanto si dirà di Clint Eastwood, con le sue uniche due espressioni: con o senza cappello.

Fine anni Trenta in Russia (mai chiamata Unione Sovietica). Ascensori sempre rotti, acqua potabile che va e viene, tram stracolmi di uomini e pecore… I russi vivono nella miseria, ma la propaganda afferma il contrario. E siccome il regime trova insopportabile che certe notizie arrivino in Occidente, compie un giro di vite – dicesi censura – nei confronti della stampa estera. Scopriremo che è colpa (o merito) di una spia, il Thompson interpretato da Gable.

Hedy interpreta Golubka, una comunista idealista (dunque, fanatica e preoccupante per i pragmatici al potere). Guida il tram e legge solo opuscoli della propaganda. L’anziano padre (Bressart) teme per la sua vita, le purghe si susseguono, tanti muoiono o scompaiono, perciò chiede a Thompson di portarla con sé in America. È una richiesta di aiuto in forma di ricatto: il padre sa che è lui la spia e minaccia di denunciarlo alle autorità.

Controvoglia, Thompson incontra Golubka. Ma quando la vede… Insomma, non è poi così male convincerla a venire in America, dove potrà agire per la rivoluzione proletaria. Deve tuttavia ammettere che “è dura fare la rivoluzione in un paese in cui le masse hanno inventato il boogie woogie”. Lei non deflette: ha divorziato dal primo marito, che aveva lo zar tatuato sul petto, ma qualcosa della rivoluzione bolscevica non dispiaceva agli americani, quella giovane donna non esita a scambiare appassionati baci con un uomo conosciuto mezz’ora prima… Si sposano nottetempo. Lui le presta una sottoveste “dal gusto un po’ reazionario”, ma non consumano il matrimonio, perché inizia una serie di imprevisti, che li porteranno in una buia cella, accusati di spionaggio. E così Golubka apre gli occhi sul regime che l’ha indottrinata. Ma non sarà stato inutile che le abbiano insegnato a guidare anche i carrarmati.

Con Hedy Lamarr

Alta società [High Society] – Charles Walters, 1956 – 5

Come sprecare un terzetto di All Star: Bing Crosby (53), Grace Kelly (27) e Frank Sinatra (41). Ho evidenziato subito l’età, perché trovo sia uno dei fattori che hanno provocato questo risultato deludente. Remake di Scandalo a Filadelfia (1940), la trama è insipida, frivola, melensa: mentre una giovane e bella ereditiera sta per risposarsi, si vede piombare in casa l’ex marito (ancora innamorato di lei) e un giornalista a caccia di scoop.

Aggiungete le musiche di Cole Porter e un’ottima costumista, Helen Rose, che verrà chiamata a disegnare l’abito indossato dalla sposa nel matrimonio con il Principe Ranieri (di soli sei anni più vecchio). Per Grace, questo fu l’ultimo ruolo cinematografico.

Assurdo rimproverare agli attori di non essere all’altezza di Katharine Hepburn, Cary Grant e James Stewart. Nelle favole, anche quelle sentimentali, quel che conta è la credibilità. Fra l’altro, questo remake può contare sulla deliziosa Celeste Holm, nei panni della fotografa che affianca Mike Connor, il giornalista. Nove o dieci canzoni rallentano lo sviluppo degli eventi, nonostante spesso compaia il sorridente Louis Armstrong, con la sua orchestra; per Crosby e Sinatra fu appositamente aggiunto un duetto.

Tempo prima, Dexter-(Crosby) ha divorziato da Tracy (Kelly), che ora ha deciso di risposarsi con George, un uomo d’affari che si è fatto da sé. Poiché il padre di Tracy ha avuto una scappatella con una ballerina, un rotocalco scandalistico propone uno scambio: se potrà seguire il matrimonio in esclusiva, non darà conto della notizia.

Senza Grace, sarebbe un film pessimo. Lei è principesca, anzi regale; di una bellezza incantevole, di un’eleganza raffinatissima, impossibile dimenticare la scena a bordo piscina. Ma il suo personaggio è algido, sofisticato, altero, insopportabile. Diventa umana solo quando si ubriaca di champagne.

Con Grace Kelly

Grace Kelly (1929-82). Al cinema (1951-56)

Grace Kelly 1929-1982

  1. La quattordicesima ora (Fourteen Hours), Henry Hathaway (1951)
  2. Mezzogiorno di fuoco (High Noon), Fred Zinnemann (1952)
  3. Mogambo, John Ford (1953)
  4. Il delitto perfetto (Dial M for Murder), Alfred Hitchcock (1954)
  5. La finestra sul cortile (Rear Window), Alfred Hitchcock (1954)
  6. La ragazza di campagna (The Country Girl), George Seaton (1954)
  7. Fuoco verde (Green Fire), Andrew Marton (1954)
  8. I ponti di Toko-Ri (The Bridges at Toko-Ri), Mark Robson (1954)
  9. Caccia al ladro (To Catch a Thief), Alfred Hitchcock (1955)
  10. Il cigno (The Swan), Charles Vidor (1956)
  11. Alta società (High Society), Charles Walters (1956)

Grace di Monaco, Olivier Dahan, 2014

Bad Girls – Jonathan Kaplan, 1994 – 6

Ibridare i generi – in questo caso, western, commedia romantica e femminismo – è sempre complicato. Va trovato un equilibrio fra diverse convenzioni, e si corre il rischio di deludere chi si aspettava altri sapori.

A fare da protagoniste sono quattro donne, ex prostitute che intendono rifarsi una vita, ma sono costrette ad affrontare sparatorie, inseguimenti e violenze assortite, fra citazioni da Gli spietati, Le pistolere e finale alla Mucchio selvaggio, con centinaia di proiettili sparati all’impazzata.

Dalle quattro cowgirl emana una notevole fotogenia: Madeleine Stowe è Cody Zamora, la leader del gruppo, Mary Stuart Masterson è Anita, Andie MacDowell è Eileen e Drew Barrymore interpreta Lily. Del cast, fanno parte James Russo (il sadico Kid Jarrett, con la sua frusta), Robert Loggia (suo padre Frank) e Dermot Mulroney (il vendicativo Joshua, la cui sorte mi è parsa l’unico scarto dal prevedibile).

Le quattro possono contare su dodicimila dollari (i puntuali versamenti in banca effettuati da Cody negli ultimi sei anni) e una concessione per delle terre nell’Oregon. Ma per difendere Anita, Cody ha ucciso un cliente che la picchiava, e la vedova ha ingaggiato due agenti della Pinkerton affinché vengano catturate.

Tramonti sfolgoranti (color pesca, rosso arancio, giallo limone), controluci di galoppate a cavallo, fiumi da guadare, eccetera. Vedremo le cowgirl vestite da uomo, ma quando si tratta di ritirare i soldi in banca preferiranno “travestirsi” da signore. Dal profondo Sud, con un sorriso delizioso, MacDowell mostra ampi margini di miglioramento a cavallo; Barrymore risulta la più atletica e scattante, Masterson la più inespressiva, Stowe (la mia preferita) è segnata da cicatrici sulla schiena e da un passato ingombrante. Avrebbero tutte diritto alla famosa “seconda possibilità”, ma dovranno sudarsela. Di fronte, individui brutali e arroganti, perfidi e violenti, con un paio di eccezioni, alla voce “uomini che non odiano le donne”.

La signora in rosso [The Woman in Red] – Gene Wilder, 1984 – 5

Sul cornicione di un palazzo di San Francisco, nudo sotto l’accappatoio, Theodore Pierce si domanda come sia potuto accadere, fino a quattro settimane prima era un padre di famiglia senza grilli per la testa. Finché un giorno, nel parcheggio sotterraneo del grattacielo dove lavora, aveva avuto un’apparizione, una donna bellissima, tutta vestita di rosso, biancheria compresa, come poté constatare vedendola ballare per qualche istante sulla grata del ricircolo dell’aria. Come Marilyn Monroe in Quando la moglie è in vacanza.

Theodore non aveva mai tradito la moglie, non ne aveva mai avuto l’intenzione, a differenza degli amici con cui gioca a tennis e con i quali confronta le rispettive esistenze. Ma dopo quell’apparizione fulminante, comincia ad architettare complicatissimi piani per rivedere Charlotte, la modella assunta dalla sua agenzia per una campagna pubblicitaria, cadendo in ogni genere di equivoco. Vi risparmio i dettagli, la trama non è certo la ragione del successo di questa pellicola, che riporterà Theodore sul cornicione – in diretta tivù per moglie e figlia – proprio quando sembrava aver conquistato la sua preda.

Remake di una commedia francese – Certi piccolissimi peccati, in originale Un éléphant ça trompe énormément – diretta da Yves Robert nel 1976; accanto a Wilder, lontanissimo dagli esiti comici di Frankenstein junior, attori dimenticabili, con l’eccezione di Charles Grodin e Gilda Radner. E poi c’è lei, Kelly LeBrock, uno di quei rarissimi casi – penso a Bo Derek – in cui l’esplosione di un sex symbol oscura ogni altra considerazione. Carriera brevissima, quella di Kelly, con decine di copertine per ogni film in cui è apparsa. La donna perfetta, oggetto del desiderio per l’immaginario adolescenziale di tanti quarantenni.

Musiche di Stevie Wonder, che vinse l’Oscar per la migliore canzone, una dolciastra I Just Called to Say I Love You.

Le frontiere dell’odio [Copper Canyon] – John Farrow, 1950 – 5

Johnny Carter si presenta come attore di varietà, mago e giocoliere, ma fra gli spettatori qualcuno crede di riconoscere il colonnello Desmond, dell’esercito sudista. Lui nega di essere l’uomo che cercano, e rifiuta di correre in aiuto degli ex sudisti vittime di prepotenze a Coppertown: lavorano in una miniera di rame, ma l’unica fonderia appartiene a un unionista, che rifiuta di fare affari con gli ex nemici; costretti a portare il minerale altrove, vengono spesso rapinati.

Pare che il colonnello Desmond, fatto prigioniero dall’Unione, fosse riuscito a fuggire con la cassa del reggimento: ventimila dollari. Sulle sue tracce, un biondo tenente nordista (Harry Carey Jr.) va a Coppertown, dove vivono i parenti dell’ex colonnello, ed è così che incontra una giovane vedova e se ne innamora.

Arriva la diligenza, ne scendono sette ballerine e Johnny Carter, che già dal primo incontro corteggia Lisa Rosell, la donna che gestisce il saloon e pare legata al violento vicesceriffo Travis. Di nuovo, gli ex sudisti premono su Carter, a cui pare interessi solo Lisa, “una avventuriera di New Orleans astuta e senza scrupoli”.

Sceneggiatura balbettante, tutta incentrata sull’ambiguità: di Carter (ma il pubblico capirà subito che non è chi dice di essere) e di Lisa (il cui legame con Travis è solo opportunista). Del resto, Ray Milland sa essere ambiguo, con quel sorrisetto sornione che cominciai a odiare quando voleva far uccidere Grace Kelly, sua moglie in Delitto perfetto. E Lisa è Hedy Lamarr, di sfolgorante fotogenia a trentasei anni, certo non favorita dall’abbigliamento castigato dell’epoca.

L’inevitabile amore fra il tenente e la giovane vedova allude a una piena riconciliazione nazionale. Girato in Technicolor fra l’Arizona e la California del sud, la fotografia è di Charles Bryant Lang Jr. (1901-98), Oscar nel ‘32 per Addio alle armi e candidato altre diciassette volte; era il nonno di Katherine Kelly Lang, la Brooke Logan di Beautiful.

Con Hedy Lamarr