Le frontiere dell’odio [Copper Canyon] – John Farrow, 1950 – 5

Johnny Carter si presenta come attore di varietà, mago e giocoliere, ma fra gli spettatori qualcuno crede di riconoscere il colonnello Desmond, dell’esercito sudista. Lui nega di essere l’uomo che cercano, e rifiuta di correre in aiuto degli ex sudisti vittime di prepotenze a Coppertown: lavorano in una miniera di rame, ma l’unica fonderia appartiene a un unionista, che rifiuta di fare affari con gli ex nemici; costretti a portare il minerale altrove, vengono spesso rapinati.

Pare che il colonnello Desmond, fatto prigioniero dall’Unione, fosse riuscito a fuggire con la cassa del reggimento: ventimila dollari. Sulle sue tracce, un biondo tenente nordista (Harry Carey Jr.) va a Coppertown, dove vivono i parenti dell’ex colonnello, ed è così che incontra una giovane vedova e se ne innamora.

Arriva la diligenza, ne scendono sette ballerine e Johnny Carter, che già dal primo incontro corteggia Lisa Rosell, la donna che gestisce il saloon e pare legata al violento vicesceriffo Travis. Di nuovo, gli ex sudisti premono su Carter, a cui pare interessi solo Lisa, “una avventuriera di New Orleans astuta e senza scrupoli”.

Sceneggiatura balbettante, tutta incentrata sull’ambiguità: di Carter (ma il pubblico capirà subito che non è chi dice di essere) e di Lisa (il cui legame con Travis è solo opportunista). Del resto, Ray Milland sa essere ambiguo, con quel sorrisetto sornione che cominciai a odiare quando voleva far uccidere Grace Kelly, sua moglie in Delitto perfetto. E Lisa è Hedy Lamarr, di sfolgorante fotogenia a trentasei anni, certo non favorita dall’abbigliamento castigato dell’epoca.

L’inevitabile amore fra il tenente e la giovane vedova allude a una piena riconciliazione nazionale. Girato in Technicolor fra l’Arizona e la California del sud, la fotografia è di Charles Bryant Lang Jr. (1901-98), Oscar nel ‘32 per Addio alle armi e candidato altre diciassette volte; era il nonno di Katherine Kelly Lang, la Brooke Logan di Beautiful.

Con Hedy Lamarr

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Manon ‘70 – Jean Aurel, 1968 – 7

Difficile trovare le parole per definire la bellezza, l’eleganza, il fascino, il sex appeal di Catherine Deneuve a venticinque anni. Facile capire perché si sia pensato a lei per rinnovare il mito di Manon Lescaut, e farlo nel Sessantotto, quando la liberazione sessuale e la sua premessa – la liberazione della donna – avrebbero dovuto rendere anacronistico, o peggio insensato, un romanzo di 237 anni prima, tutto scritto dal punto di vista di lui.

Manon è l’archetipo della “mantenuta”. Leggera e disinibita, usa gli uomini, desidera fare una bella vita e non esita a procurarsela. Si innamora di François (Sami Frey), un giornalista incrociato in aeroporto, che perde la testa per lei. Ne deriva un sentimento tempestoso, vissuto diversamente: lui pretende la fedeltà, lei afferma che l’unica che abbia senso sia l’amore. Per una donna, dice, la fedeltà fisica è irrilevante.

Come nel romanzo dell’abate Prévost, fra loro si insinua il fratello di Manon (Jean-Claude Brialy), opportunista all’ennesima potenza. Sa che ci sono tanti uomini disposti a pagare per stare con Manon, e cerca di convincere François a sfruttare la situazione. In fondo, si tratta solo di affari… Lo stile di vita di questa giovane donna è edonista e avventuroso: “Nessuno mi può giudicare” cantava in quegli anni Caterina Caselli. Del cast fanno parte anche Elsa Martinelli e Robert Webber.

Il regista aveva collaborato con Truffaut, e pare inseguirne il tocco. Deneuve veniva da un ruolo con qualche similitudine (Buñuel, Bella di giorno) tratto da uno scandaloso romanzo di Joseph Kessel. E il cerchio si chiude con Truffaut che la chiama per un terzo ritratto di femme fatale, La Sirène du Mississipi, accanto a Belmondo, da un racconto di Cornell Woolrich.

Non fosse un bel tenebroso abituato a dominare le donne, anziché inseguirle, si potrebbe provare pietà per Sami Frey, con la sua pretesa di fedeltà eterna. D’accordo, concede Manon: “Sarà un inferno, ma tu l’avrai voluto”.

#Garbo – A Woman of Affairs [Destino] Clarence Brown, 1928 [cine2.935] – 8

Liberamente tratto – con un grottesco, esplicito tradimento – da Il cappello verde, il romanzo di Michael Arlen pubblicato a New York nel 1924, Destino è uno di quei film muti che in 90 minuti racchiudono una quantità mirabolante di eventi, sottoponendo lo spettatore a un ingorgo emozionale. Onore è la parola chiave, declinata in varie accezioni, tutte al maschile, tutte mortificanti. Il destino della protagonista è il fallimento, l’infelicità: vittima delle convenzioni, la sua moralità viene continuamente equivocata.

Meravigliosa fotografia di William H. Daniels, montaggio di Hugh Wynn, scenografia di Cedric Gibbons, costumi di Adrian. Il cast è notevole: Greta Garbo (Diana Merrick), John Gilbert (Neville Holderness), Lewis Stone (Hugh Trevalyan), John Mack Brown (David Furness), Douglas Fairbanks Jr. (Jeffry Merrick). Fu Irving Thalberg a valutare che il romanzo di Arlen avesse notevoli potenzialità, ma il Codice Hays imponeva di rimuovere ogni riferimento alla sifilide… Garbo affermò che questo fu il suo ruolo preferito, all’epoca del muto.

Diana è la sorella di Jeffry, innamorata di Neville, compagno di giochi fin dall’infanzia, insieme a David, che ora è il miglior amico di Jeffry. Un flashback ci riporta agli anni spensierati in cui Diana, Neville e David correvano in bicicletta, lei davanti, finché andò a sbattere contro un grande albero (fu quella la prima volta in cui Neville, dopo averla soccorsa, osò baciarla).

Ora Diana e Neville meditano di sposarsi, ma Morton Holderness, il padre di lui, cerca di allontanarli, facendo leva sul fatto che Neville appartiene a una famiglia nobile, ma priva del denaro necessario per far felice una moglie ricca come la primogenita dei Merrick. A “osservare” molti dei fatti raccontati è una strana figura di medico, il dottor Trevalyan… Continua a leggere

Doveroso omaggio a Raquel Welch

Jo Raquel Tejada era nata nel 1940 a Chicago da padre boliviano e non è arrivata al successo da giovanissima. Fra fantascienza e preistoria, Viaggio allucinante e Un milione di anni fa sono pellicole del 1966, quando aveva già due figli.

L’unico premio come attrice arrivò nel 1974, per il ruolo di Costanza Bonacieux, la dolce innamorata di D’Artagnan, ne I tre moschettieri (chi ha letto il romanzo ancora si chiede chi si stato il genio che la fece scegliere per quel ruolo, tanto esangue sulle pagine di Dumas). Dopo quel grande successo, Raquel venne richiamata da Richard Lester per l’inevitabile sequel, Milady.

Ha preso parte a numerosi e dimenticabili film italiani; la ricordo, piuttosto, in un titolo francese del ’77 accanto a Belmondo (L’animale, di Claude Zidi). E l’ho rivista poche settimane fa in un film bizzarro (Barbablù, di Edward Dmytryk, con Richard Burton), dove recita per otto minuti, dando vita alla suora meno timorata che si sia mai vista sul grande schermo.

Playboy l’ha inserita al terzo posto delle 100 star più sexy del Ventesimo secolo. Di Raquel Welch forse non si potrà dire che fu una grande attrice, ma riverniciò il concetto di sex symbol, e la sua prorompente bellezza riempiva lo schermo, impedendo di giudicarla per le sue qualità artistiche.

Cosa sia un sex symbol può spiegarlo questa scena: in Borotalco, quel latin lover mitomane che si fa chiamare Manuel Fantoni sostiene di averla frequentata e fa strabuzzare gli occhi al giovanissimo Verdone quando spiega che “al posto dei seni c’ha du borracce, non ha i capezzoli, c’ha du chiodi, belli belli, rosa, tosti, che ce puoi attaccà un quadro”.

Windfall – Charlie McDowell, 2022 [filmTv025] – 6

Distribuito da Netflix, questo esperimento narrativo poteva risultare ben più inquietante e invece, nonostante l’escalation da gioco al massacro, mi ha lasciato freddo.

Solo tre attori (più una comparsa che fa una brutta fine): Jason Segel, Lily Collins e Jesse Plemons; il regista è figlio del mattatore di Arancia meccanica, sceneggiatori Justin Lader e Andrew Kevin Walker, l’autore di Seven.

Un uomo di cui non sapremo il nome – tantomeno il movente – penetra nella lussuosa casa di campagna di una coppia di successo (lui amministratore delegato di azienda hi-tech, lei dirige una fondazione benefica), tra i frutteti californiani a nord di Los Angeles. L’intruso si aggira per casa, attraversa l’agrumeto, mangia un’arancia, svuota i cassetti alla ricerca dei soldi, li trova. Ma resta sorpreso dall’arrivo dei padroni di casa… Avrebbe tutto il tempo per scappare, ma si accorge di essere stato ripreso da una telecamera; rientra in casa, sequestra i proprietari. È quasi comico come stabiliscono la cifra del riscatto. In contanti: dovranno convivere per ventiquattrore.

Vari echi hitchcockiani: dalla scelta dell’unità di tempo e di spazio, alla suspence che si innesca quando lo spettatore ne sa più dei personaggi. Siamo spinti a credere che dietro l’apparenza si celi ben altro; affiora qualcosa di losco e di opportunistico nel rapporto fra i coniugi. Ma che strano ladro è quello: si sarebbe accontentato di molto meno, si muove a caso, avventato, dominato da emozioni che non sa padroneggiare. È attratto dalla donna, ha una pistola (l’ha trovata nella casa), ma non sa come usarla. Quando l’equilibrio si rompe per l’entrata in scena del giardiniere, la situazione sfugge a ogni controllo.

Nei cinque minuti finali, più che risposte avremo soluzioni. Segnalata l’ovvia fotogenia di Lily Collins, spicca l’antipatia di Plemons, reduce dalla nomination per Il potere del cane.

Giornalisti al Cinema 296: Gemma Arterton

Gemma Arterton – Tamara Drewe, Stephen Frears, 2010

The Family Man – Brett Ratner, 2000 [filmTv006] – 7

Clima natalizio, la prima volta che l’ho visto, rimasi colpito da Téa Leoni (34 anni) e trovai convincente pure Nicolas Cage (36), che da tempo immemorabile non azzecca un film. Nel cast, anche Don Cheadle, Saul Rubinek e Josef Sommer.

Le vite di Jack Campbell e Kate Reynolds sono state indirizzate da una scelta: tredici anni prima, lui non aveva rinunciato a un lavoro a Londra. Fino all’ultimo secondo utile, nell’aeroporto JFK di New York, si erano fatti solenni promesse, la separazione avrebbe rinsaldato il loro amore, eccetera. Ora, per una specie di magia, a Jack viene data la possibilità di “un’occhiatina”: scoprire quale vita avrebbe vissuto, se avesse fatto la scelta opposta.

Ancora scapolo, ricchissimo, in carriera a Wall Street, con un’amante strepitosa, una Ferrari e un attico di gran lusso, Jack non è felice. Poi vediamo l’ex fidanzata, e la magia consiste nel farcela trovare sposata con Jack, con due bambini (Annie e Josh) e una villetta suburbana nel New Jersey. Lui vende pneumatici, Kate fa l’avvocato, il loro guardaroba lascia capire che devono finire di pagare il mutuo.

Ci sono situazioni divertenti (il bowling), ambigue (da anni Evelyn, pure lei sposata, cerca di sedurre Jack), stridenti (lui dimentica l’anniversario di matrimonio) o commoventi (Annie pensa che un alieno si è sostituito al padre). Per Jack sembra impossibile accettare la nuova situazione, Kate se ne accorge, ma non può capire il perché.

A Jack è stata impartita una lezione; se non fosse Natale, potremmo avere qualche dubbio su quel che ne ricaverà. Egoismo ed egocentrismo non sono scomparsi, Jack si sente intrappolato, non guida più una Ferrari e possiede un guardaroba improbabile; ma Kate è splendida, tutti gli amici gliela invidiano, i bambini si sono affezionati, insomma quest’altra vita è più desiderabile dell’altra. Sempre che “l’occhiatina” diventi definitiva e sia Jack a convincere Kate che i soldi non fanno la felicità. Ha ripreso a nevicare, vuol dire che finirà bene.

La marge [Il margine] – Walerian Borowczyk, 1976 – 6

Dal romanzo omonimo (1967) di André Pieyre de Mandiargues, con Sylvia Kristel e Joe Dallesandro. Venne distribuito anche con il titolo Emmanuelle 77 per sfruttare la popolarità della Krystel; quanto a Dallesandro, veniva dalla factory di Warhol e Paul Morrissey, il suo nome evocava le nudità integrali in pellicole come Flesh.

Nella dialettica fra Amore e Morte, il regista polacco agisce con pochissime parole, affidando il massimo spazio possibile al linguaggio dei corpi. Interessante l’uso della musica: Funeral for a Friend e Saturday Night’s Alright di Elton John, I’m Not in Love (10cc), Yira Yira (Carlos Gardel) e la lunga introduzione di Shine On You Crazy Diamond (Pink Floyd). Mutilato dalla censura, la versione che ho visto contiene quella in cui i due protagonisti giocano, nudi, con le uova sode.

Sigismond vive felice, in campagna, con la splendida moglie Sergine (Mireille Audibert) e il figlio piccolo, accuditi dalla governante Féline; il rapporto fra i coniugi è talmente idilliaco che, dopo aver fatto l’amore fra i gialli fiori di mimosa, i due si promettono fedeltà eterna. Ma un parente coinvolge il giovane marito in un giro d’affari per le città francesi, e a Parigi, Sigismond entra in una zona malfamata, dove viene adescato da Diana, prostituta elegante e misteriosa.

Riceve una lettera da casa, scritta da Féline: ne legge solo poche righe, la governante gli comunica che la moglie si è tolta la vita. Richiude la lettera, la mette in tasca… Tornato in albergo, ha un altro rapporto con Diana, a cui paga tariffa doppia. Lei compra un capo di biancheria intima, ma viene scoperta: il protettore la schiaffeggia e le distrugge l’indumento. A Sigismond concede un rapporto orale per una cifra ancora superiore. Pare intuire che quell’uomo sia mosso da una spinta autodistruttiva; oppure, è intimorita dall’attrazione che prova nei suoi confronti. Fugge, lui la rincorre invano. Riapre la busta, legge l’intero contenuto della lettera…

Non pensarci, Gianni Zanasi, 2007 – 8

Capita, ogni tanto, che la fine di un film lasci un grammo di dispiacere, dovendo abbandonare certi personaggi. Capita ancora più raramente che si tratti di un film italiano, di un’opera che sa trasmettere un’attitudine critica, uno sguardo acuto su turbolenze generazionali, e attori capaci di sembrare persone.

Musicista rock ormai vicino ai quaranta (dunque, appena più giovane di Zanasi), Stefano non sa se e come potrà proseguire la sua carriera, anche la vita privata attraversa una crisi, così decide di tornare a casa, a Rimini, dalla sua famiglia. Stavolta, a differenza del passato, gli riuscirà di farsi carico di verità che non voleva nemmeno ascoltare, limiterà l’egocentrismo, riuscirà ad assumersi qualche responsabilità.

La storia ruota intorno a tre fratelli e ai loro genitori. Descrive un ritrovarsi e un perdersi, con una narrazione ellittica, fatta di silenzi eloquenti, incomunicabilità che hanno scavato voragini e faticose volontà di porvi rimedio. “Non stavamo meglio quando ci dicevamo le bugie?”, dirà il protagonista.

Mastandrea trova un ruolo appropriato, Battiston si conferma bravissimo, Anita Caprioli (così bella, che in certi momenti posso essermi distratto dalla trama) è ben più di una spalla per entrambi, Dino Abbrescia e Natalino Balasso trasmettono simpatia, e persino Caterina Murino (poco prima di prendere parte alla sagra di James Bond) mostra insospettabili sfumature.

Storia di provincia; un po’ riecheggia il Radiofreccia di Ligabue e si dipana con un andamento sfuggente, ottime scelte visive (la corsa sotto il rilevatore di velocità, il black out notturno visto dalla collina, le bottiglie di ciliegie sciroppate che deflagrano al suolo, la danza d’amore sul divano nella villa del neo-deputato). Non meno sorprendente la scelta musicale, che spazia dalla Traviata a Ivan Graziani, da Chopin ai Merci Miss Monroe.

Descente aux enfers [Discesa all’inferno], Francis Girod, 1986 [filmTv129] – 6

Meglio dirlo subito: se non siete innamorati, come lo sono io, di Sophie Danièle Sylvie Maupu, in arte Marceau, nata a Parigi il 17 novembre 1966, questo film che viaggia su Netflix in lingua originale, potete benissimo evitarlo.

Da un romanzo di David Goodis, scrittore più volte trasferito al cinema: Dark Passage (Delmer Daves 1947, con Bogart e Bacall), Tirez sur le pianiste (Truffaut 1960), Lo specchio del desiderio (Beineix 1983, con Depardieu e Nastassja Kinski).

Lei, Sophie, aveva vent’anni: il regista la mostra nuda o seminuda appena possibile. Ma il thriller psicologico non decolla. Originale l’ambientazione: Port-au-Prince, Haiti. Colori intensi, caldo che appiccica, sudore che cola. La prima mezz’ora è interessante.

Alan (Claude Brasseur), il cui vestito bianco mostra larghe chiazze di sangue, si muove furtivo in una città deserta; arriva al suo albergo, nella stanza lo aspetta una giovane donna, che appena lo vede, così combinato, sussurra: “Cosa hai fatto?”

Scopriremo che sono marito e moglie, parigini, sposati da un anno, con almeno venti di differenza (nella vita vera, trenta). Un flashback ci mostra cos’è accaduto dal loro arrivo ai Caraibi, cinque giorni prima. Famoso scrittore di polizieschi, Alan tende a stordirsi con il rum e prima di sposare Lola era stato per cinque anni con la sorella maggiore… Quanto Lola sia insoddisfatta, lo dimostra la facilità con cui accetta il corteggiamento di un tipo inconsistente. Ma un altro flashback incombe, centellinato a puntate: una violenza che Lola subì nei meandri della metropolitana.

La pellicola prosegue con un ricatto, allusioni al turismo sessuale, una polizia di cui è impossibile fidarsi, e un immotivato riavvicinamento fra marito e moglie.

La coppia Brasseur/Marceau fu costruita apposta per dare scandalo: già protagonisti di due film di enorme successo (Il tempo delle mele 1 e 2, cioè Le Boum), dove interpretavano padre e figlia, quando uscì Descente aux enfers, Brasseur fu coperto di insulti.

Hedy Lamarr, la donna gatto, Edoardo Segantini, 2011

Alla fine degli anni Trenta, Hedy Lamarr fu definita la donna più bella del mondo; “diventò l’emblema della donna che guida il suo destino, che afferma autonomamente la propria sessualità, che prende in mano il volante della sua vita senza chiedere il permesso. Una femminista ante litteram. Sovente collocata – nella finzione e nella realtà – in territori ai limiti dei codici morali del suo tempo”.

Nel 1991, irriconoscibile, con i lineamenti deformati dalla chirurgia plastica, venne fermata per furto in un drugstore in Florida.

Nata a Vienna il 9 novembre 1913, Hedwig Eva Maria Kiesler era di famiglia ebrea benestante (padre direttore di banca, madre pianista); dopo un’infanzia e un’adolescenza felici, dovette assistere al crollo degli Asburgo, alla nascita della Repubblica austriaca, alla tragica diffusione dell’antisemitismo.

Recitò in una trentina di pellicole, fra cui Estasi, Sansone e Dalila, Gente allegra, Un’americana nella Casbah, Disonorata.

Morì in solitudine, il 19 gennaio 2000 ad Altamont Springs, nei pressi di Orlando, Florida: assecondandone la volontà, uno dei figli portò le ceneri in Austria per disperderle su una collina.

Per ricostruirne la parabola, tipica storia di ascesa e caduta, Segantini – che non ha mai incontrato la diva – ha largamente attinto alla sua autobiografia – L’estasi e io – pubblicata nel 1966, quando Lamarr era ormai lontana dal cinema. Lo scrittore italiano si è largamente smarcato dai contenuti pruriginosi e dal gossip che infarcisce quel testo, che Lamarr disconobbe senza riuscire a evitarne la pubblicazione.

“Hedy Lamarr è un personaggio che si fatica a racchiudere in una sola immagine. Con la sua intelligenza, i suoi misteri, la sua bellezza e la sua follia, non ha forse eguali nella storia del cinema. I critici e gli storici dello spettacolo ritengono che, pur bellissima, tra le più belle di tutti i tempi, non sia stata però una grande attrice”.

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Lo strano vizio della signora Wardh, Sergio Martino, 1971 [filmTv92] – 6

Pare che la lettera “h” sia stata aggiunta per scongiurare l’azione legale per il danno al suo buon nome, minacciata da una certa signora Ward poco prima dell’uscita del film (15 gennaio 1971). Secondo aneddoto: una delle tracce musicali – Dies Irae – è stata ripresa da Tarantino in Kill Bill: Volume 2.

A solo ventidue anni, per Edvige Fenech questa fu la diciassettesima pellicola. Vorrei vedere l’implicito sequel – Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave – uscito nel 1972 sempre per la regia di Sergio Martino. Sequel implicito, perché il titolo rimanda alla lettera minatoria sul “vizio” di Julie Wardh, le tendenze masochistiche che avevano pervaso la relazione con Jean, l’attore Ivan Rassimov, che qui muore, ma l’anno successivo tornerà in altre vesti.

Musiche di Nora Orlandi. Doppiati quasi tutti gli attori: George Hilton da Sergio Graziani, Cristina Airoldi da Flaminia Jandolo, Ivan Rassimov da Nando Gazzolo, Alberto de Mendoza da Pino Locchi, la stessa Fenech da Rita Savagnone. Solo del commissario (Carlo Alighiero) sentiamo la vera voce.

Non puoi sbagliare nell’indicare il colpevole. Qualche doccia, qualche seno al vento, qualche minigonna, ma l’intento di Martino è confezionare un thriller che faccia saltare sulla sedia, con tocchi di macabro e di orrorifico (gli animali esotici di Jean), imitando il maestro Mario Bava e il giovane Dario Argento, che stava muovendo i primi passi. Fra Vienna e la Spagna, Julie Wardh diventa oggetto di un triplice accerchiamento: il perverso Jean vuole riportarla a sé, il marito Neil, che pure la “trascura” (verbo mirabile, per capire l’epoca), la considera sua proprietà, e quando appare George, può sembrare la perfetta via di fuga. Purtroppo, è in azione un serial killer che sgozza giovani donne a colpi di rasoio, e l’equilibrio psichico di Julie viene messo a dura prova. Arriverà pure lo psicanalista, forse si rifarà una vita proprio con lui.

Oui, Je Suis Catherine D.

Le hanno consegnato il Leone d’oro alla carriera, nel corso della cerimonia d’apertura della Mostra d’Arte cinematografica di Venezia, e ho deciso di riproporre il post che ricavai dalla lettura della sua autobiografia: All’ombra di me stessa (Sperling & Kupfer, 2005).

Per Catherine Deneuve, Venezia rimanda al Leone d’Oro del 1967, attribuito a Bella di giorno, e la Coppa Volpi come miglior attrice assegnata nel 1998 per Place Vendôme. Ma già nel 1964, la mostra veneziana era stata illuminata dalla ventunenne che Jacques Demy aveva scelto per Les parapluies de Cherbourg.

Nata a Parigi il 22 ottobre 1943, ha preso parte a oltre cento film. Su questo blog, ho già scritto di 16, altri seguiranno: Potiche (Ozon, 2010) – Le Sauvage (Rappeneau, 1975) – Anima persa (Risi, 1977) – Place Vendôme (Garcia, 1998) – Non toccate la donna bianca (Ferreri, 1974) – Manon ’70 (Aurel, 1968) – Fatti di gente perbene (Bolognini, 1974) – Tristana (Bunuel, 1970) – Appuntamento con l’assassino (Pirés, 1975) – La verità (Kore-eda, 2019) – Notte sulla città (Melville, 1972) – Les parapluies de Cherbourg (Demy, 1964) – Joséphine. Le Demoiselles de Rochefort (Demy, 1967) – Bella di giorno (Bunuel, 1967) – 8 donne e un mistero (Ozon, 2002) – L’ultimo metrò (Truffaut, 1980) –

Oui, je suis Catherine Deneuve” era il claim pronunciato dall’attrice non ancora quarantenne, nel 1982, in un celebre spot per la Lancia Delta LX. Classico caso in cui l’oggetto della pubblicità scompare e rimane solo il testimonial.

Le Sauvage [Il mio uomo è un selvaggio], Jean-Paul Rappeneau, 1975 [cine32 – 2.915] – 7

Frenetico e sgangherato, con colori vibranti e corpi sempre in movimento, attori chiamati a una recitazione sovreccitata: ma basta la luminosissima presenza di Catherine Deneuve a giustificare il restauro e il ritorno in sala di questa specie di farsa, che insegue e fa il verso alla commedia sofisticata hollywoodiana. Musiche di Michel Legrand e fotografia di Pierre Lhomme.

Ventidue anni fra Deneuve e Yves Montand… Del resto, la trama poggia pienamente sulla totale sospensione dell’incredulità, basti pensare a come Nelly fugga dall’imminente matrimonio con Vittorio (Luigi Vannucchi, al suo ultimo film) e a come Martin si illuda di aver fatto perdere le tracce alla multinazionale dei cosmetici per la quale inventava profumi.

Partito da Grasse, a New York Martin si era imposto come inventore di profumi, poi aveva deciso di abbandonare moglie e lavoro, e rifugiarsi su un’isoletta al largo del Venezuela. Sa fare tutto, aggiusta motori, costruisce zattere, cucina meravigliosamente, naviga a motore o a vela, ricava dalla terra stupendi frutti… Nelly, invece, non sa fare niente, è una specie di tornado biondo, che travolge e distrugge: la fuga pare l’unica dimensione possibile, di macerie, Nelly, ne ha accumulate tante, si era sposata giovanissima, in Venezuela ha avuto una storia con un gestore di un locale notturno, ma anche con Alex è finita male (vorrebbe risarcirsi con un Toulouse-Lautrec). A interpretare Alex è Tony Roberts, protagonista di Io e Annie e di altri film di Woody Allen.

Ovvio che fra Nelly e Martin si sprigioni l’attrazione fisica (chi poteva resistere alla trentaduenne Deneuve?), ma il prepotente Vittorio torna a riprendersi la fidanzata, e Martin dovrà scegliere fra la prigione e il reintegro nella multinazionale. Altrettanto ovvio è che Nelly e Martin siano fatti l’uno per l’altra, ma il ritorno alla natura non si rivela idilliaco e il potere del denaro continuerà a incombere minaccioso.

Olivia Newton-John, qui

Grease (1978) – Sandy e Danny

Una copertina del 1981Herb Ritts per lei e per Madonna

Agente #007. Quantum of Solace, Marc Forster, 2008 – 7

A Siena, a pochi passi dal Palio in Piazza del Campo, “M” e Bond interrogano Mr. White, il misterioso superbanchiere catturato alla fine di Casino Royale: non sospettano che Quantum, l’organizzazione criminale per cui lavorava anche LeChiffre, possa infiltrarsi ovunque. Persino fra i fedelissimi di “M”.

Altre riprese in esterni sono italiane, sull’autostrada del Garda, fra Torbole e a Tremosine. Al solito, quella che appare nella saga bondiana è l’Italia vista con gli occhi dell’esotismo, con i costumi tipici e le atmosfere di altri tempi. Dopo un breve passaggio londinese, ritroviamo Bond a Haiti. Il primo contatto con Camille Montes (Olga Kurylenko) è conflittuale; Bond non può sapere che lei ha scelto di diventare l’amante di Dominic Greene (Mathieu Amalric), al solo scopo di vendicarsi. Greene appare come un imprenditore illuminato, dedito alla salvezza del pianeta: in realtà, lavora per Quantum nel realizzare colpi di stato in America Latina (va rimesso sul trono il sanguinario ex dittatore, in cambio di una concessione su un vasto territorio desertico). Quantum non cerca il petrolio, ma il controllo dell’acqua (ci aveva già pensato Polanski con Chinatown). La CIA osserva e approva: non si era ancora vista una rappresentazione così cinica degli inconfessabili rapporti tra l’affarismo delle corporations e l’assenza di scrupoli dei governi occidentali.

Il regista – che aveva diretto Monster’s Ball, portando all’Oscar Halle Berry – riprende la trama esattamente da dove il film precedente l’aveva lasciata. Fa riapparire Giancarlo Giannini, che a Bond era sembrato un traditore, nella vicenda che aveva portato alla morte di Vesper Lynd. Disilluso e stanco, svuotato da troppe esperienze, René Mathis non uscirà vivo dalla Bolivia… Quello di Craig si configura come un Bond incattivito, cupo, l’ironia è ridotta ai minimi termini, la sua fisicità è più vicina alle magliette di Jason Bourne che agli smoking di Connery e Moore. Incantevole la Bond Girl di turno: modella ucraina, sinuosa e scattante, Kurylenko è elegante anche con una semplice canottiera. Minore il ruolo affidato a Gemma Arterton, la cui triste fine rimanda alla mitica Jill Masterton di Missione Goldfinger.

Dimenticabile title track, eseguita da Alicia Keys, fra gli sceneggiatori spicca Paul Haggis, ma troppi hanno messo le mani sul plot. Quantum of Solace è il primo 007 in cui la “gunbarrel sequence” arriva solo con i titoli di coda.

TUTTO BOND

Agente #007: dieci artefici del mito

Aveva lavorato nella Naval Intelligence della Marina britannica; dopo la guerra, Ian Fleming visse a lungo in Giamaica, in una tenuta chiamata GoldenEye… La figura di James Bond appare come una sorta di alter ego dello scrittore, fumatore e bevitore incallito, con una certa componente paranoica nel vedere nemici ovunque, ammetteva di aver sempre desiderato una vita come quella che aveva regalato al suo eroe. Fra il 1952 e il 1964 (morì nell’agosto di quell’anno, d’infarto, a soli cinquantasei anni), Fleming firmò una dozzina di romanzi (Octopussy, pubblicato postumo nel 1966, è la seconda raccolta di racconti). Per quale pubblico scriveva? “per passionali adulti eterosessuali”, disse in un’intervista.

Dopo lo scrittore, fra gli artefici del mito vanno necessariamente considerati i due produttori che trasformarono le pagine in pellicola: Albert “Cubby” Broccoli e Harry Saltzman.

Poi viene Sean Connery (scelta che Fleming non condivise).

Figure fondamentali furono quelle di Ken Adam – l’inventore del look di Bond, dell’estetica pop in cui venne immerso, dei gadget, della camicia alla coreana del “cattivo”… – Terence Young – il primo regista – Maurice Binder – creatore del logo di 007 e della grafica sui titoli di testa – e John Barry e Monty Norman – compositori delle prime colonne sonore e del James Bond theme.

Ho citato solo uomini, mi sembra necessario che il decimo nome sia di una donna: Eunice Gayson a trentaquattro anni fu la prima Bond Girl, in Licenza di uccidere. Precedendo Ursula Andress, con uno squillante abito rosso, Sylvia Trench appare al tavolo di un casinò e presto finisce nella camera da letto dell’uomo appena conosciuto, che per la prima volta ha appena pronunciato la formula “Mi chiamo Bond, James Bond”.

Pare che Gayson fosse stata ingaggiata per il ruolo di Miss Moneypenny… Appare per un minuto, ma si rivelerà essenziale nella costruzione del mito.

TUTTO BOND

Gemma Bovery [id.], Anne Fontaine, 2014 [filmTv64] – 6

Tratto dall’omonimo graphic novel di Posy Simmonds (1999), il film è esilissimo, ma si regge su qualche eccellenza: le musiche di Bruno Coulais, gli splendidi panorami della provincia normanna, la classe di Fabrice Luchini e la burrosa fotogenia di Gemma Arterton.

Luchini fa Martin Joubert: sette anni prima, aveva lasciato Parigi con la moglie Valérie (Isabelle Candelier) per trasferirsi nel paesino del Normandia e riaprire l’antica panetteria dei genitori. Vicino ai sessanta – simile al personaggio che Luchini aveva appena interpretato in Molière in bicicletta – Martin ha la passione per la grande letteratura, di certi classici conosce le pagine a memoria, e le parole stampate nei libri lo spingono a sognare come sarebbe stata la sua vita se…

Arterton fa Gemma, venticinquenne inglese da poco trasferita in quel bucolico paesello normanno insieme al marito, Charlie Bovery. Qualcosa di grave è successo, perché Charlie sta bruciando ogni cosa che gli ricorda Gemma; per caso, Martin riesce a mettere le mani sul diario della donna, comincia a leggerlo, e il pubblico vedrà ricostruire ciò che è accaduto negli ultimi mesi.

Bovery, guarda la coincidenza… Gemma risuona come Emma, Charlie somiglia al Charles del romanzo di Flaubert, e presto arriverà un amante (il ricco Hervé), che vive nel castello di famiglia dove la madre l’ha spedito per prepararsi a un esame universitario (Martin, ovviamente, disprezza e, soprattutto, invidia Hervé).

La vita è un romanzo, diceva Resnais: uno come Martin Joubert ne è davvero convinto. Per fare il bene di Gemma (personaggio appena abbozzato, quasi un cliché), e salvarla dall’infelicità, Martin finirà per rendersi colpevole di una stravagante disgrazia… Non passerà molto tempo prima che la casa lasciata libera dai Bovery venga affittata da un’altra coppia, che somiglia sinistramente ai Karenin di Tolstoj: c’è da giurare che Martin non avrà imparato la lezione.

Agente #007. Moonraker. Operazione Spazio [Moonraker], Lewis Gilbert, 1979 – 6

L’undicesimo Bond “ufficiale” comincia con una scena vertiginosa: scagliato fuori da un aereo, l’Agente 007 ha una sola possibilità, acciuffare l’uomo con il paracadute che sta precipitando davanti a lui. Ma un assassino dalla dentatura da “Squalo” ha avuto la stessa idea… Per la terza e ultima volta, Shirley Bassey canta sui titoli di testa, nella raffinata grafica di Maurice Binder; terza e ultima regia bondiana per Lewis Gilbert; ultima apparizione di Bernard Lee nel ruolo di “M”; ricompaiono Walter Gotell e Geoffrey Keen (il generale sovietico Gogol e il ministro della Difesa britannico). Per motivi fiscali, Broccoli inaugurò una co-produzione anglo-francese. Questo spiega la presenza della meravigliosa Corinne Cléry (Histoire d’O), l’errore fu sacrificarla al sadismo del nemico di turno dopo appena 33’ (Tarantino ci avrebbe mostrato qualcosa di più dell’inseguimento dei due enormi cani neri).

Moonraker è il nome dello space shuttle costruito dal ricchissimo magnate Hugo Drax (Michael Lonsdale, attore francese spesso impegnato con Losey e Truffaut). È subito chiaro che la Drax Enterprise non è quel che sembra. Ma raramente si era assistito a un movente così cervellotico (chiamarlo distopico, mi pare eccessivo): sterminare l’umanità, con l’eccezione di una ventina di coppie razzialmente pure (e biancovestite) da far riprodurre su un’Arca di Noé nello spazio…

A cinquantadue anni, Roger Moore esagera con i sorrisetti piacioni, da irresistibile seduttore, e ancora una volta irride i gadget di “Q”, che gli salveranno la vita. L’altra Bond Girl è Lois Chiles (vista nel Grande Gatsby accanto a Redford e Farrow): questa Holly Goodhead è interessante finché perdura l’ambiguità, appena si scopre che fa parte della CIA, la “corrispondenza di amorosi sensi” con la spia inglese diventa banalmente automatica.

Dalla California a Venezia, a Rio de Janeiro (dove, neanche a dirlo, impazza il Carnevale); strafalcione imperdonabile, la piramide di Tikal (Guatemala) viene collocata al centro del Brasile. Il film risente terribilmente della “moda” di Star Wars: impazzano i laser, si svolge una battaglia spaziale fra due piccoli eserciti a malapena distinguibili. Tramite le musiche, si citano Incontri ravvicinati, 2001 e persino I magnifici sette, forse anche Frankenstein: il gigantesco killer dai denti d’acciaio incontra la sua anima gemella, una biondina con le trecce, sorridente e pettoruta, che oggi fa pensare a Harley Quinn.

TUTTO BOND