Rocco Schiavone, la terza stagione

I quattro episodi della terza stagione sono stati trasmessi su Rai 2 dal 2 ottobre al 23 ottobre 2019, con questi titoli: La vita va avanti / L’accattone / Après la boule passe / Fate il vostro gioco.

La regia della serie è stata affidata a Simone Spada, che succede a Michele Soavi e Giulio Manfredonia; le sceneggiature sono di Manzini e Maurizio Careddu, direttore della fotografia è Fabrizio Lucci, musiche di Corrado Carosio e Pierangelo Fornaro.

Come al solito, attingendo ai romanzi pubblicati da Sellerio, le avventure del Vicequestore sono ambientate fra Valle d’Aosta e Roma: le trame televisive sono tratte da L’eremita (2017), Fate il vostro gioco (2018), L’accattone (2019).

I singoli episodi hanno superato i due milioni di spettatori, arrivando oltre l’11% di share; Marco Giallini aveva appena lavorato al cinema con Simone Spada, in Domani è un altro giorno.

Confermato gran parte del cast. Accanto a Giallini, oltre al fantasma di Marina (Isabella Ragonese), si muovono Italo Pierron (Ernesto D’Argenio), Caterina Rispoli (Claudia Vismara), gli ottusi D’Intino e Deruta (Christian Ginepro e Massimiliano Caprara), Casella e Scipioni (Gino Nardella e Alberto Lo Porto), il burbero anatomopatologo Fumagalli (Massimo Reale) e l’eccentrico capo della Polizia Scientifica Gambino (Lorenza Indovina), il Procuratore Baldi e il Questore Costa (Filippo Dini e Massimo Olcese), “Seba”, Brizio e Furio (Francesco Acquaroli, Tullio Sorrentino e Mirko Frezza). Resta deluso chi si aspetta che evolva il rapporto, finora aspro e conflittuale, con l’ex moglie del Questore, Sandra Bucellato, la giornalista interpretata da Valeria Solarino.

Difficile incasellarla in un genere, questa serie: “commedia poliziesca”?

Appartengo a quella categoria di lettori e spettatori che è molto più interessata alla vita di Rocco Schiavone che alle sue indagini. Continua a leggere

#Luther: la magnifica, terribile terza serie

Quattro episodi, tre ore e mezza complessive: comincia con un asfissiante montaggio alternato, la tipica calma che precede la tempesta, aggiornando gli ancestrali incubi sull’Uomo Nero. Insistite inquadrature sotto un letto, preludono all’entrata in scena di un terrificante assassino feticista. Il pubblico lo vede ben prima che John Luther e Justin Ripley possano scoprirlo.

Il sergente ha una fiducia cieca nel fiuto di Luther, e tuttavia avverte il pericolo nel correre sempre sulla lama del rasoio, fino a infrangere le regole. I due hanno già un caso da seguire, l’omicidio di un individuo spregevole, che tramite internet offendeva i morti e procurava altro dolore ai familiari. Sulle prime due trame ne incombe una terza: un’operazione segreta degli “affari interni” della polizia. Punta a colpire Luther, seguendo una semplice teoria: se sei sopravvissuto a tanti inferni, forse appartieni a quelli che accendono le fiamme. Non può essere totalmente innocente chi ha attraversato quei fuochi ustionanti… I poliziotti incaricati dell’indagine cercano di portare Ripley dalla loro parte; anche il sergente sembra convincersi che Luther vada fermato…

Luther e Ruth

Il cielo londinese è, al solito, livido, grigiastro e piovoso.

La prima coppia di episodi procede fra atrocità e dolcezza, delitti del passato sembrano spiegare quelli del presente, tare ereditarie e dolore auto-inflitto come espiazione. La razionalità di Luther e Ripley sembra una fragile zattera in balia degli eventi.

Inquadrature dal basso, uso dello zoom per cambiare il fuoco sulla stessa scena, l’insostenibile, meticolosa lentezza con cui il serial killer prepara il nuovo delitto: vedere Luther è un’esperienza in apnea, emotivamente e fisicamente faticosa.

La seconda e ultima coppia di episodi è meno tremenda come estetica, ma persino più potente dal punto di vista della capacità di costruire paura. Non più rimasticando quelle ancestrali, ma rovistando nel nuovo mondo della Rete, dove gli istinti possono sfrenarsi, la rabbia non ha argini e i fragili limiti della civiltà giuridica sono sull’orlo del collasso.

Poi, un raggio di luce, una sorpresa di quelle da cui vuoi farti sorprendere, riporta in scena il seducente Angelo del Male che vigila sulla salvezza di John Luther.

(1° settembre 2013 – fine, sperando in una quarta serie)

#Luther: come porre fine all’orrore

La serie è in larga parte girata a Londra, la sigla di apertura è Paradise Circus dei Massive Attack.

John Luther (Idris Elba) lavora all’Unità Crimini Seriali. È salito al grado di ispettore capo, ma lo squallore del suo appartamento e il logoro cappotto grigio fanno capire che non ha più una vita, oltre la caccia ai criminali.
Dotato di una sensibilità straordinaria, annusa il dolore che sta accanto al male, ne prova compassione ed è questo il propellente per combattere i colpevoli. Catturare il maniaco non riporterà in vita le vittime, ma potrà dare sollievo a chi le amava.

La sua stabilità mentale è messa a dura prova dalla natura dei delitti e dalla relazione “amorosa” che gli ha imposto Alice Morgan (Ruth Wilson), una specie di angelo della morte, che – non senza motivo – ha massacrato i genitori. Alice è l’unica a situarsi sulla stessa lunghezza d’onda di Luther, l’unica così abile da sfuggirgli.

Accanto a John Luther, agiscono il fedelissimo sergente Justin Ripley (Warren Brown), che lo ammira e lo teme, e l’ormai anziano Sovrintendente Martin Schenk (Dermot Crowley).

Se fra Luther e Alice si configura l’ambiguità che lega Batman a Catwoman, fra Luther e Justin è evidente la similitudine con Batman e Robin.

Luther e Ripley

Luther costringe lo spettatore a una discesa agli inferi. Mostra delitti talmente efferati, che si fatica a crederli possibili, e indagini che viaggiano al termine di una notte cupissima, l’unico spiraglio di luce sta nel porre fine all’orrore. A quella specifica forma di orrore, perché un’altra apparirà presto.
Il pubblico è spesso un passo avanti, consapevole dell’identità del criminale, in ansia per la corsa contro il tempo (il prossimo delitto).

Neil Cross, l’artefice della serie, la BBC che l’ha prodotta, registi e sceneggiatori che si sono alternati, hanno progressivamente enfatizzato il ruolo dei personaggi di contorno. Ma la serie si regge sulla bravura di Idris Elba, il tempo sembra passare più lentamente quando lui non è in scena.

Con la sua andatura curva, le mani in tasca, Idris Elba è ben più che il protagonista di un serial tv: è impossibile immaginare John Luther interpretato da un altro.

#Luther, la prima serie

Luther

Sapete quanto sia impressionabile, quanto mi facciano paura la canna della pistola puntata contro la telecamera, gli spargimenti di sangue, gli assassini seriali. Ma questa serie tv ideata da Neil Cross e prodotta nel 2010 dalla BBC è così avvincente, ben scritta e ben interpretata, che questi aspetti estetici passano in secondo piano.

John Luther è un poliziotto che lavora a Londra. Lo interpreta un attore che sembra sempre sul punto di diventare un divo, Idris Elba; un Denzel Washington meno fascinoso ma dalla fisicità non meno potente.

È un bravo poliziotto, intuitivo e coraggioso, che però deve continuamente fare i conti con il suo lato oscuro e violento: è un lavoro difficile, il suo, sempre alle prese con il Male, nelle sue variegate forme. Luther non indietreggia, per raggiungere il risultato, è disposto a interpretare la legge in modo estensivo, il che gli procura vari problemi.

La serie comincia con il suo rientro al lavoro dopo che è stato sottoposto a un procedimento disciplinare: pare non abbia fatto tutto il possibile per evitare che un criminale finisse in coma. Fra i poliziotti, qualcuno lo guarda con diffidenza, ma un paio di collaboratori continuano a credere in lui e si butterebbero nel fuoco pur di seguirlo. Continua a leggere

Prima di Mad Men: Jerry Della Femina racconta (5, fine)

Spesso la pubblicità è migliore del prodotto, e questo può diventare un problema: “ci sono stati casi in cui si è dovuto migliorare il prodotto per mantenere le promesse della pubblicità”. Ma spesso questo non è possibile.
La concorrenza fra agenzie produce idee innovative. Per esempio, nel settore delle auto a noleggio, fece scalpore una pubblicità della Avis che faceva leva sulla sua differenza dalla Hertz, leader del mercato. “We’re Number 2, We Try Harder” (Non siamo grandi come quegli altri, ma ci diamo molto più da fare).

Le agenzie della vecchia guardia erano organizzate come una catena di montaggio. All’inizio, un copywriter buttava giù decine di slogan sullo stesso argomento, li portava al suo responsabile, che ne sceglieva alcuni su cui far lavorare l’art director. Un metodo, che JDF definisce dispersivo e, tutto sommato, improduttivo. La sua idea è che occorra “mettere il copywriter e l’art director nella stessa stanza” affinché possa crearsi l’alchimia giusta (in un altro punto del libro, JDF scrive che “forse sarebbe meglio parlare di matrimonio”).

Mad Men Don Draper (Jon Hamm)Alcune delle agenzie più grandi, che pure sono passate al lavoro di squadra, a volte mettono al lavoro quattro o cinque coppie sullo stesso problema: “un brutto affare. Questo vuole dire che una sola squadra vincerà. Le altre finiranno per essere bocciate”, innescando un prevedibile stress.

“I creativi di tutte le agenzie lavorano meglio sotto pressione. Se hanno a disposizione tre anni per un lavoro, aspetteranno fino all’ultimo minuto per mettersi alla scrivania”. È un’altra forma di stress, ma stavolta ha effetti positivi. JDF racconta vari episodi intorno alla creatività che prorompe mentre si approssima la deadline.

Il libro affronta anche il problema della censura, soprattutto televisiva. Sigarette e prodotti per l’igiene intima possono incorrere nelle maglie della censura, sia sotto forma dell’Associazione Nazionale che se ne occupa, sia come filtro imposto dalle singole emittenti.

Continua a leggere

Prima di Mad Men: Jerry Della Femina racconta (4)

Arrivato a fondare un’agenzia tutta sua, JDF si rende conto che è tutto sommato “facile assumere un art director o un copy, ma quando faccio un colloquio a un account executive non ho idea di cosa chiedergli”.

A Madison Avenue circolano molti soldi, le agenzie di successo pagano ottimi stipendi. JDF sostiene che “soprattutto gli account vivono ben al di sopra delle loro possibilità… quello pubblicitario è un settore che ti proietta subito in prima classe. Quando ci si abitua a un certo stile di vita, si tende a vivere fuori dall’ufficio esattamente come si vive dentro. È così che funziona. Comprano barche, si iscrivono allo yacht club, vivono in case costose. Molti vivono veramente al limite. Scommetto che tantissimi non hanno risparmi da parte”. Qui sta la fragilità del ruolo dell’account, “l’unica figura al mondo che, una volta assunto, viene pagato un sacco di soldi per cinque o sei anni, e poi a un certo punto non vale più nulla perché ha perso il cliente”.

Mad Men 56, Jerry Della Femina scrive (4)“Se qualcuno ti paga trentacinque, quarantamila dollari all’anno per fare il copywriter o l’art director, vivi con la paura che la vena si esaurisca”. È un po’ come nel baseball: “Non puoi giocare per molti anni: per sette, otto o al massimo nove giochi al meglio della forma, tutto quello che fai funziona, ti cercano per offrirti dei lavori e i cacciatori di teste fanno carte false per averti. Poi inizia la fase calante. Per questa ragione gli strizzacervelli fanno affari d’oro”.

Sono molto rari i creativi con più di quarant’anni, “non so cosa facciano dopo i quaranta, ma se ne vanno. Ci dev’essere un’isola da qualche parte popolata solo da elefanti, copywriter e art director. Me la immagino. Un’isola minuscola piena di vecchi elefanti, copy e direttori artistici ormai completamente bruciati”.

JDF sostiene che la grande maggioranza dei copywriter provenga dalla classe media o medio bassa, e che tutti abbiano letto Il lamento di Portnoy.
A New York lavorano le star del settore, chi fallisce può trovare rifugio a Cleveland o in altre città periferiche, ma con compensi molto ridotti.
Nelle agenzie newyorkesi, “la relazione normale è di otto impiegati ogni milione di dollari di fatturato”.

Certe campagne pubblicitarie falliscono per imperdonabili errori di concezione. Per esempio, non ha senso postulare che i bevitori di birra vogliano perdere peso. Le birre analcoliche (stiamo parlando della fine degli anni Sessanta) partono da una premessa scorretta e lo sviluppo della strategia pubblicitaria assomiglia alla torre di Pisa: “metti il primo mattone storto, e tutto va di traverso”. La grande maggioranza dei bevitori di birra ama “guardarsi la pancia”. (4, segue)

Prima di Mad Men: Jerry Della Femina racconta (3)

Secondo Jerry Della Femina, è del tutto sproporzionata la leggenda che vuole i creativi sempre abbinati alle modelle. Semmai sono i fotografi: “La modella-tipo, prima di tutto, è talmente stupida che nessuno ci prova con lei. Ed è nevrotica! È talmente ansiosa da essere insopportabile. Bisogna sempre ricordarsi una cosa sulle modelle: vivono del loro aspetto, e la loro unica occupazione è essere belle”.

Ogni giorno, più volte al giorno, si trovano chiuse in una stanza con altre ragazze altrettanto belle, vengono sottoposte a provini di pochi secondi e nel 90-95% dei casi vengono scartate. Sono ragazze che “passano da un rifiuto a un altro rifiuto a un altro rifiuto ancora fino a che non impazziscono. Quante volte al giorno puoi essere rifiutato?”. Continua a leggere

Prima di Mad Men: Jerry Della Femina racconta (2)

Il lavoro nelle agenzie è descritto come fortemente precario. Segretarie, impiegati, contabili e, soprattutto, “creativi” venivano assunti e licenziati con estrema frequenza. “Di solito le grandi agenzie hanno un killer che si occupa dei licenziamenti”. Il punto di partenza è sempre quello: un cliente rescinde il contratto con l’agenzia in maniera improvvisa (di solito, il preavviso era di novanta giorni).

“La agenzie hanno un margine del quindici per cento sulla parcella di un cliente oltre a piccoli extra come le spese di produzione”. Dunque, se salta un cliente da quindici milioni di dollari, l’agenzia perde due milioni e mezzo: “è un sistema terribile” e uno degli effetti è che un sacco di gente va dallo psicanalista, “Dio solo sa quante persone a Madison Avenue vanno dallo strizzacervelli, ma il numero e le percentuali devono essere enormi. Li vedi uscire tutti di mercoledì pomeriggio, dalle tre alle quattro, per farsi dare un’aggiustatina”. JDF sostiene che il valore di mercato dei pubblicitari per gli psichiatri, a New York, è talmente elevato che anche lo psichiatra va di nascosto da un altro strizzacervelli perché ha paura di perdere i suoi pubblicitari.

Mad Men i creativi Continua a leggere

Prima di Mad Men: Jerry Della Femina racconta (1)

Quei bravi ragazzi che si sono inventati Pearl Harbor, Rizzoli, 2011

Jerry Della Femina (JDF) è uno dei più famosi copywriter americani, uno di quelli che nei primi anni Sessanta hanno rivoluzionato il modo di fare pubblicità, a partire dall’ormai famosa Madison Avenue, New York City. Le esperienze narrate nel libro hanno fornito molti spunti a Matthew Weiner, ideatore della serie tv Mad Men; JDF è stato chiamato come consulente nella produzione del serial.

Nel 1970, JDF aveva raccontato le sue esperienze professionali in questo libro già pubblicato da Lupetti nel ’97 con il titolo Anche un pubblicitario può essere intelligente, ristampato da Rizzoli dopo il successo televisivo di Mad Men.

L’autore racconta cosa significava essere pubblicitari nell’America degli anni Sessanta, nel momento di più profonda fibrillazione politica, culturale e sociale. È una carrellata di aneddoti e personaggi, l’autoritratto di una categoria affascinante, con stili di vita legati a un rapido quanto precario successo. L’autore lo definisce “un resoconto sincero, dal di dentro, di un periodo selvaggio per gli affari, un’era nuova”, irripetibile, politicamente scorretta.

“I Mad Men originali sono tutti morti. Ironicamente sono morti per aver consumato i prodotti che hanno venduto con tanto entusiasmo”: sigarette, superalcoolici e per i “pranzi a tre martini alla volta”. Continua a leggere

The Leftovers, un bilancio conclusivo

Il 14 Ottobre 2011, in un lampo sparì il 2% della popolazione mondiale: circa 140 milioni di persone. “L’Improvvisa Dipartita” coinvolse tutte le età, i generi, le razze, in ogni parte del mondo. Ambientata fra l’autunno 2014 e l’inverno 2015, la prima stagione di questa seria televisiva si apriva e si chiudeva senza risposte: né la comunità scientifica, né le grandi religioni sapevano spiegare cosa fosse accaduto.

Ideata da Damon Lindelof e Tom Perrotta per il canale via cavo HBO, «The Leftovers» nasce dal romanzo omonimo di Perrotta (2011). L’atmosfera è enigmatica, inquietante: «Lost» (Lindelof ne fu tra gli artefici) e «The Others» appaiono come riferimenti immediati. Parlando del romanzo, Stephen King affermò che quell’atmosfera rimandava ai migliori episodi di «Ai confini della realtà». Oltre alle splendide musiche di Max Richter, la colonna sonora è piena di canzoni pop che insinuano doppi sensi.

Il tema di fondo si può così riassumere: «The Leftovers» parla della perdita, del dolore, del lutto, di come gli individui reagiscono per continuare a vivere. Il trauma agisce come fattore scatenante, agli autori interessa indagare le reazioni a quanto è accaduto.

QUI

 

Homeland, la terza stagione: considerazioni e appunti

Homeland 3

Nel download testi – QUI – ho inserito i “pensierini” che mi sono stati suscitati dalla visione della terza e per ora ultima serie di Homeland.

Nella stessa pagina, si possono trovare anche i testi analoghi sulla prima e sulla seconda serie. Pieni di spoiler…

Homeland III, premessa numero 2

La terza stagione di Homeland ruota intorno al tentativo di ricostruire la credibilità della CIA dopo il terrificante attentato alla sua sede, attribuito a Nicholas Brody, che ha provocato 219 morti.
La reputazione dell’Agenzia è ai minimi termini, da quando è emerso che Brody aveva ottenuto l’immunità nonostante si sapesse che stava attentare alla vita del Vicepresidente Walden, candidato alla Presidenza degli Stati Uniti.

Al vertice della CIA sta per avvenire un passaggio di consegne: Saul Berenson verrà messo da parte, al suo posto salirà un senatore assai vicino al Presidente, la cui prima preoccupazione sarà modificare le pratiche di intelligence, in un contesto in cui la patria appare quanto mai vulnerabile a minacce interne, oltre che esterne. La paranoia del nemico in casa e il senso di colpa per non aver saputo evitare l’11 Settembre hanno mutato la natura dell’organizzazione.

Contraddicendo la sua legge istitutiva, la CIA non si precluderà azioni di sicurezza su suolo americano, anche se significasse entrare in rotta di collisione con FBI e polizia.

Homeland III

Gansa e Gordon fanno propria la visione più oltranzista, sui collegamenti terroristici fra l’Iran e il Venezuela di Chavez. E compiono un passo cruciale, di autentica complicità morale, nel far accettare al pubblico televisivo le tecniche che la CIA adotta per la “sicurezza nazionale”. Tecniche che contemplano la tortura, la sorveglianza di privati cittadini, il rapimento politico, la menzogna sistematica nei confronti del Senato, del Congresso, degli organi di informazione.

La guerra al terrore – ci fa capire «Homeland» – è ormai uno stato di emergenza permanente. Improbabile vincerla definitivamente, impossibile farlo applicando la Costituzione e la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti.
Pezzi di carta da sacrificare, come quegli innocenti che si usa definire “effetti collaterali”.

Homeland III, premessa numero 1

Pur mantenendo un’alta qualità visiva e narrativa, la terza serie di Homeland non è stata all’altezza delle precedenti.
Il livello di inverosimiglianza ha travalicato quella soglia impalpabile, che fa sì che lo spettatore possa fremere per la sorte dei personaggi.

I creatori della serie, Alex Gansa e Howard Gordon, hanno architettato una trama convulsa, in cui le vicende personali dei protagonisti rimangono in secondo piano (la moglie di Brody non appare nelle ultime 4-5 puntate, la famiglia di Carrie scompare ancora prima, il passato di Dar Adal e di Peter Quinn rimane un mistero…), mentre si moltiplicano le scene d’azione girate con i droni, mostrate su grandi schermi nella sala operativa di Langley, la sede della CIA.

Homeland 03

In un articolo della rivista statunitense «Jacobin» ripreso da «Internazionale» nel dicembre scorso, stava scritto che fin dagli anni Trenta l’FBI aveva istituito un ufficio per curare la propria immagine nel cinema (e in seguito alla radio e alla tv).
Anche altre agenzie governative – il Dipartimento della Difesa, la Marina, l’Aeronautica – hanno investito sulla propria immagine, cercando di costruire le condizioni per ottenere rappresentazioni favorevoli. Da ultimo, anche la CIA ha scelto questa strada, valutando necessario migliorare la propria reputazione presso il grande pubblico nordamericano.
Film pluripremiati come «Argo» e «Zero Dark Thirty», o serie tv come «24» e «Jag», non sarebbero possibili senza il diretto intervento – attrezzature, personale, assistenza tecnica – degli apparati per la sicurezza nazionale. In cambio di qualche concessione sul piano del controllo dei contenuti, i produttori hanno la possibilità di girare in location particolari, altrimenti precluse; possono disporre di immagini d’archivio e comparse (impiegati governativi), senza spendere un dollaro.

Scrive Jacobin: “costa meno sottomettersi all’influenza del governo che noleggiare un sottomarino o una portaerei”.

Homeland, la terza serie: ho cominciato a vederla, presto ne scrivo, intanto il riassunto delle puntate precedenti

1 e 2

PRIMA STAGIONESECONDA STAGIONE

Belfagor, la mia scoperta della paura (il pdf)

copHo rivisto gli appunti e, come al solito, la stesura definitiva l’ho inserita nel “download testi”. Sapete che ci sono frequenti spoiler, comunque il tutto sta QUI

Belfagor (5), verso il finale

Fra le caratteristiche dei migliori “sceneggiati” tv, Belfagor ha quella di alternare i generi: con estrema fluidità, passa dalla commedia sentimentale all’horror, dalla detective story al soprannaturale.

“Sarebbe terribile per l’umanità se quelle scoperte venissero divulgate”, dice André a Ménardier, alludendo alla possibilità di costruire bombe atomiche con quattro soldi.

“Quando ti avrò detto tutto, non mi amerai più”, sussurra Luciana ad André.
Fu il padre di Luciana a trovare le carte che hanno innescato il dramma, ma lei dice di non sapere chi sia Belfagor. Una volta tanto, sembra sincera.
André insiste. Lei gli dice che il fantasma sa percepire le radiazioni emesse dal metallo di Paracelso, e viene risvegliato attraverso l’ipnosi e un antico farmaco. Ammette di aver paura di fare la fine di Lady Hodwin.

Nella casa di Luciana, André scopre che si nasconde Stephanie, la sorella che tutti credono morta.
Quella notte, il solito bambino conduce Belfagor nella casa di Luciana.
La donna si sveglia di soprassalto, grida, il fantasma fugge, André si getta all’inseguimento, ma viene catturato da due delinquenti, che lo imbavagliano e legano a un vagone ferroviario.
Quando riesce a liberarsi, scopre che Luciana è stata arrestata.
Ménardier è stato sostituito per mancanza di risultati; al suo posto, l’ispettore Grué, che non ha alcuna simpatia per Bellegarde.

Aiutato da Colette, André riprende la sua indagine personale.
“Guascone” è l’aggettivo che mi sento di attribuirgli… Più per caso che per abilità, trova una traccia presso uno sfasciacarrozze, ma cade in trappola. Sembra del tutto inverosimile che possa cavarsela usando le carcasse di automobili, e infine viene acciuffato.
È Colette a liberarlo dalla stanza in cui viene rinchiuso.
Mentre sono sul cornicione, indifesi, un fucile telescopico li tiene sotto tiro: lo impugna Williams, a cui Luciana chiede – anzi ordina – di non sparare.

Belfagor - Williams e Luciana

Williams la conduce nel suo laboratorio segreto, la donna vuole sapere chi è Belfagor.
Lui le spiega che il fantasma ha sempre bisogno di qualcuno che lo guidi.
Poi le dichiara il suo amore, una specie di amore che si confonde con il possesso totale, e che lei non intende offrirgli. A questo punto, di nascosto, lui le fa bere una bevanda drogata… (5, segue)

Belfagor (4): fra Kiss Me Deadly e Raiders of the Lost Ark

Il silenzio in cui si è chiuso André Bellegarde viene usato dal commissario Ménardier: lo studente diventa un’esca, per far uscire allo scoperto chi sta manovrando Belfagor.
Ma Colette rovina i piani del padre, facendo fuggire l’uomo che ama.

Boris Williams avvicina la ragazza e la conduce da Lady Hodwin. Hanno un messaggio per Bellegarde: deve mettersi subito nelle loro mani, altrimenti sarà ucciso.

Subito dopo – in una lunga, inquietante scena in cui lei cammina davanti a lui, e lui spegne ogni luce che viene accesa – Lady Hodwin e Williams discutono animatamente; si avverte una forte tensione su quel che va fatto o va evitato.
Si scopre che Williams è il figlio naturale della Lady, che può proteggerlo meglio proprio perché è l’unica a conoscenza di questo fatto.
Ma Lady Hodwin supera una soglia intollerabile e Williams la uccide a sangue freddo.
Davanti al cadavere, Ménardier ha chiaro che ciò che è avvenuto produce un salto di qualità, d’ora in poi ogni colpo sarà mortale.

Una lettera anonima mette il commissario su una nuova pista, che lo conduce in provincia.
In un cimitero, trova la tomba di Stephanie, la gemella di Luciana.
Dal loro padre, il commissario riceve un vecchio documento che parla dell’antica setta dei Rosacroce. Dalla madre, un’indicazione su come rientrare in fretta a Parigi: e Ménardier sfugge fortunosamente a un mortale attentato…

Parla con Bellegarde, che gli conferma di aver scoperto qualcosa sui Rosacroce. Si tratta di una società segreta assai potente nel XVII secolo. Pare avessero trovato la formula del “metallo prodigioso” di Paracelso, il famoso alchimista. Quel metallo possiede le proprietà dell’oro e del radio, Bellegarde ha visto che la statua di Belfagor ne contiene una certa quantità.

Il Bacio + e l'Arca

Il metallo di Paracelso ricorda l’ultima, strepitosa immagine di un film di Robert Aldrich, «Un bacio e una pistola» (1955): in quel caso, l’investigatore privato Mike Hammer aveva dato un passaggio a una autostoppista, e da lì aveva preso il via una storia contorta, chiusa con l’apertura di una valigetta, da cui emana una sostanza abbacinante e mortale.
Un altro parallelo viene facile con «I predatori dell’Arca perduta» (Steven Spielberg, 1981), nel momento in cui, improvvidamente, i nazisti spalancano l’Arca dell’Alleanza. (4, segue)

Belfagor (3)

Due spari, poi una lunga sirena d’allarme sull’inquadratura fissa di un esterno del Louvre: la sigla di Antoine Duhamel comincia così.

André dice a Luciana che ha paura di scoprire cosa si nasconde dietro a Belfagor. Quella stessa notte, si ha la conferma di ciò che ogni spettatore sospetta: l’esistenza di uno stretto legame fra Lady Hodwin e Boris Williams.

Mentre telefona al padre da una cabina pubblica, Colette viene rapita. Drogata e bloccata su una sedia a rotelle, viene portata sulla Tour Eiffel (è Lady Hodwin a farlo sapere al padre, dicendosi molto dispiaciuta per la piega presa dagli eventi). “È l’ultimo avvertimento”, sta scritto su un biglietto firmato Belfagor, lasciato sulla ragazza.

Gautrais, il guardiano che per primo incrociò il fantasma, informa André di ciò che ha scoperto per caso: sotto un sarcofago, si apre un passaggio segreto. Alla base del sarcofago, quella notte, trovano un pulsante che apre una botola.
Si calano nei sotterranei, e si trovano sotto il livello della Senna.
Trovano un laboratorio, il bambino apparso accanto alla statua, due uomini, e infine ecco arrivare Williams, che si fa iniettare una misteriosa sostanza.
Assistono allo sforzo di Williams per risvegliare Belfagor.
Lo spettatore capisce che Williams è dedito ai riti iniziatici e possiede un’oscura forza ipnotica.

Il fantasma si alza dal giaciglio con estrema, rigida lentezza: è la scena-madre, indimenticabile per chiunque abbia visto la serie. Ricorda l’attimo in cui prende vita la creatura a cui ha dato vita il Barone di Frankenstein…
Insieme a bambino, il fantasma viene fatto salire nel museo.
André e il guardiano vedono il fantasma con le mani dirette verso la statua di Belfagor, che diventa luminosa, di un biancore abbacinante, come fosse radioattiva.

Belfagor 3Poi, per tre giorni, André scompare. Quando Gautrais cerca di tornare nel passaggio segreto, scopre che è stato allagato.
La polizia fa immergere un sommozzatore, che trova i documenti di André.
Il quale, intanto, rivede Gautrais in un bar e gli dice: “Ora so tutto”.
Ma non intende dirlo a nessuno. (3, segue)

Belfagor (2)

Jacques Lemare, il direttore della fotografia, sa come acuire l’ansia che di per sé proviene da un luogo solitamente affollato e luminoso – il museo – quando le luci si spengono e restano solo le opere d’arte.

Il commissario viene attirato in un colloquio con l’anziana Lady Hodwin (in arte Sylvie), che si dice protettrice di Belfagor e lo invita a insabbiare il caso. Altrimenti sarà colpita sua figlia… Dopo queste minacce criptiche, Colette viene costantemente seguita dalla polizia, e ciò nonostante subisce una specie di agguato in un cinematografo: lancia un grido, sviene, non ricorda cosa sia successo.

BelfagorGli informatori della polizia sono spaventati. E anche il direttore del museo vacilla nel suo credo razionalistico: alcune statue sono state spostate; spostamenti minimi, ma evidenti per i segni lasciati sul pavimento.
Il direttore lo segnala al commissario e poi gli spiega che Belfagor era il dio dell’inganno.

Colette dice ad André che Luciana è una donna pericolosa e lo farà soffrire. Lui replica che si tratta di un’infatuazione passeggera, ad attirarlo è il mistero irradiato da quella donna.

Un bambino fa strani gesti alla base della statua del dio Caldeo. Sembra fare da guida all’entità mascherata, avvolta nel lungo mantello, che si aggira nottetempo nel Louvre, e che in certi momenti sembra sperduto… Ménardier arriva presto a comprendere che almeno un custode è corrotto, e fa avere informazioni a Belfagor.

La vecchietta satanica, Lady Hodwin, ricompare nell’ufficio di Ménardier, lanciando nuovi, obliqui messaggi. Grottesca, inquietante, sguardo spiritato, non è non priva di simpatia. Al contrario, André appare presuntuoso, antipatico, troppo sicuro di sé.

Luciana è tanto ricca quanto inafferrabile: l’ultimo amante mette in guardia André sulla volubilità della donna e sul potente, morboso legame con Williams (François Chaumette).
Un uomo con il bastone e una scarpa ortopedica (che si rivela finta), nel buio, rientra dal Louvre e siede a una seduta spiritica. Quell’uomo è Boris Williams, lo ritroveremo padrone di casa in una cena a cui è invitata anche Luciana, che porta con sé André. Fra i due uomini scatta un’antipatia evidentissima.
Il make-up di Juliette Gréco è visibilmente ispirato all’antico Egitto. (2, segue)

Belfagor, la mia scoperta della paura

Buio e ombre, bianco e nero, corridoi e labirinti: è questa la base delle emozioni angosciose – per i bambini terrificanti – che il telefilm suscitò all’epoca: la RAI trasmise «Belfagor, il fantasma del Louvre» in cinque serate, fra il 15 giugno e il 21 luglio 1966 (ogni puntata durava circa 55 minuti). Più horror che poliziesco, il suo successo fu tale che il telefilm venne replicato (stavolta in quattro episodi) nel 1969, nel 1975 e nel 1988.

Belphegor

Scritto e diretto da Claude Barma, con la collaborazione di Jacques Armand e una colonna sonora, segnata da incursioni di violino, di Antoine Duhamel, «Belphégor ou le fantôme du Louvre» era stato proposto in quattro parti nel marzo 1965.
Ispirato all’omonimo romanzo scritto nel 1927 da Arthur Bernède, quello stesso anno Belphégor divenne cinema con un film muto sceneggiato dall’autore del romanzo e prodotto da Gaston Leroux, quello de «Il fantasma dell’Opera».

La trama del telefilm parte da un’antica divinità caldea accanto alla cui statua, nel Louvre, appare una figura spettrale, che si rivela al tempo stesso mortifera e imprendibile.
Dopo una breve fase di scetticismo e incredulità, il primo cadavere – un guardiano notturno – costringe la polizia ad avviare un’indagine: a condurla è il commissario Ménardier (René Dary), affiancato da un avventuroso studente, André Bellegarde (Yves Rénier), che decide di nascondersi di notte nel museo. Della riapparizione del fantasma è testimone anche la figlia del commissario, Colette (Christine Delaroche), presto attratta da Bellegarde. Il quale, invece, subisce il fascino di Luciana Borel (Juliette Gréco, che si scoprirà interpretare anche la gemella Stephanie).

Avvolto in un mantello nero, il misterioso assassino indossa una maschera, colpisce spietatamente e riesce sempre a sparire negli oscuri recessi del museo. Ci si chiede di quale terribile potere disponga. La scia di sangue si allunga e il mistero infittisce con la scoperta di una setta segreta: le indagini svelano l’attività esoterica di una congrega di occultisti, che si rifà ai Rosacroce, il cui tesoro sarebbe nascosto nel Louvre. (1, segue)

Spiral (Engrenages), la prima serie

Parigi, oggi: la prima stagione – 8 episodi – si sviluppa intorno alle indagini sull’omicidio di una giovane rumena, Elina Andrescu, il cui cadavere sfigurato è stato trovato in una discarica. Il delitto apre un baratro, un’intricata rete di prostituzione e droga, affari e politica, in cui è pesantemente coinvolto anche un amico d’infanzia dell’affascinante procuratore Pierre Clément: Benoît Faye, manager di un importante gruppo finanziario.
Le indagini sono condotte dal capitano di polizia Laure Berthaud e dai tenenti Frédéric Fromentin e Gilles Escoffier, sotto la responsabilità del giudice François Roban.

Engrenages 1b

Alla trama principale si sovrappongono e intrecciano altre storie. Alla fredda asetticità delle aule di giustizia (e della medicina legale) si sovrappone una Parigi mai vista così malsana e poco glamour.

Engrenages 1d

Alcuni genitori denunciano un’insegnante, la accusano di picchiare i loro figli (si scoprirà trattarsi di calunnia: il lato buio sta dentro le famiglie)… Un racket sfrutta sordomuti costretti a piazzare portachiavi e a versare ogni giorno una certa cifra, per non essere picchiati… Il cadavere di un ricco imprenditore viene trovato semicarbonizzato accanto al camino: sposato e con due figli, aveva relazioni sadomaso con uomini, e la moglie ne era a conoscenza… Una madre assume una babysitter con gravi problemi psichiatrici, e questa uccide il bambino che le è stato affidato… Un minorenne che fa parte di una banda specializzata nello spaccio e mantiene agli studi i fratelli minori viene trovato morto di fame e di sete in una catacomba, il colpevole è il più insospettabile (l’episodio ha per titolo “Caino”)… Un traffico di medicinali coinvolge l’azienda costruita dal padre di Marianne, la moglie del procuratore Clément… Due ex coniugi si accusano di aver rapito il figlio, handicappato psichico, e l’accusa presto evolve in quella di averlo assassinato… Un’accusa di stupro, anni prima, ha portato alla radiazione di un noto avvocato; un’altra accusa di stupro, oggi, sembra essere manifestamente infondata…
Le vicende personali dei protagonisti innescano ulteriori intrecci, polizieschi e sentimentali. Gli “ingranaggi” del sistema poliziesco e giudiziario appaiono continuamente stressati, la verità diventa una prospettiva lontana e confusa, nel gruppo che indaga si manifestano visioni assai diverse della giustizia e dei metodi necessari a inseguirla.

Spiral (Engrenages): autori, personaggi e interpreti

Ideata e scritta da Alexandra Clert e Guy-Patrick Sainderichin, la prima serie di Engrenages è stata messa in onda da Canal+ nel 2005, la seconda nel 2008, la terza nel 2010, la quarta nel 2012, per 40 puntate complessive (la durata di ognuna è di circa 45 minuti).

Nella prima serie, la regia è di Philippe Triboit (1-4) e Pascal Chaumeil (5-8).
I sei interpreti principali: Caroline Proust (capitano di polizia Laure Berthaud); Grégory Fitoussi (sostituto procuratore Pierre Clément); Philippe Duclos (giudice istruttore François Roban); Thierry Godard (tenente Gilles Escoffier, detto Gilou); Fred Bianconi (tenente Frédéric Fromentin, detto Tintin); Audrey Fleurot (avvocato Joséphine Karlsson).
Fra gli altri interpreti della prima stagione, Anne Caillon (Marianne Clément) e Guillaume Cramoisan (Benoît Faye).

spiral-engrenages-series-1-french-drama-01