Riparare il mondo, Christian Raimo, Laterza, 2020

L’intenzione dell’autore: “il mio atto di fede nel fare politica”. All’analisi critica di questo triste presente, sfigurato e forse illuminato dalla pandemia, Raimo cerca di far seguire motivi di ragionevole speranza, immagini di un futuro possibile.

Romano, nato nel 1975, insegnante in un liceo, scrittore, comincia citando Albert Camus che, nel suo discorso alla consegna del Nobel per la Letteratura (1957), disse che “ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo”, mentre la sua generazione doveva “impedire che il mondo si distrugga”.

Di sé e della sua generazione, Raimo dice: “siamo per lo più degli sconfitti, dei reduci, dei superstiti, senza aver ingaggiato alcuna battaglia”. Disincanto, apatia: manca quella che un tempo si sarebbe chiamata “coscienza di classe”; al contrario, è forte e diffusa l’autocolpevolizzazione, che si abbina all’incapacità di generare conflitto. Mark Fisher l’ha definita “depressione collettiva”.

Per molti individui, “la visibilità diventa l’obiettivo ultimo dell’esistenza”. In particolare, la generazione dei Millennials soffre di narcisismo patologico, esibizionismo, desiderio di riconoscimento a qualsiasi costo, bisogno di piacere ed essere amati.

Nel libro, si usa il cinema come cartina di tornasole di mentalità collettive. Da Melancholia (Lars Von Trier 2011) a I figli degli uomini (Alfonso Cuarón 2006); da Scialla (Francesco Bruni, 2010) a Ecce bombo (Nanni Moretti, 1979) e Ovosodo (Paolo Virzì, 1997); dovrò recupetrare L’ultima ora, film francese del 2019, diretto da Sébastien Marnier. E riporto l’agghiacciante battuta che il sadico generale Broulard rivolge al capitano Dax, in Orizzonti di gloria, spiegandogli l’utilità della decimazione casuale: fucilare qualche soldato sarebbe servito a sollevare il morale delle truppe, “ci sono poche cose più incoraggianti e stimolanti di veder morire gli altri”.

Insopportabile – per Raimo quanto per il sottoscritto, che ha quindici anni di più -, il “paternalismo” (quasi sempre al maschile) di chi ha fatto il Sessantotto e “spiega il mondo” a figli e nipoti, dall’alto di un divario di ricchezza che non ha eguali al mondo: in Italia, gli Over 60 sono molto più benestanti degli Under 34.

Bisogna chiedersi “quando le questioni collettive hanno iniziato a essere considerate dei temi cui approcciarsi con strumenti della psicologia e non con quelli della politica?”.

Per sconfiggere i minatori nello sciopero di 51 settimane che si svolse fra il 1984 e l’85, Margaret Thatcher inserì le cure psicologiche a vantaggio di chi avrebbe perso il lavoro: non più diritti collettivi, ma consolazioni individuali. Quel che un tempo era la classe operaia si trasforma in una comunità di traumatizzati, da curare. Del resto, fu Thatcher a dire: “Non esiste la società. Ci sono singoli uomini e donne”.

Dopo aver ricordato Alex Langer (1946-1995), David Foster Wallace (1962-2008) e Mark Fisher (1968-2017), l’autore conclude con una specie di appello: abbiamo un dovere, quello di riparare il mondo, anche perché “sembra di far parte dell’ultima generazione che potrà permetterselo”.

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